Jeremy Rifkin a FORUM PA 2016: la PA nella Terza Rivoluzione Industriale

Il keynote di apertura della Manifestazione di quest’anno sarà tenuto da Jeremy Rifkin. Con l’intervento di quello che è considerato uno dei “profeti” del nuovo ordine economico che va sotto l’abusato termine di sharing economy, vogliamo continuare ad alimentare, nel corso dell’evento, momenti di “pensiero alto”, di riflessione e approfondimento su quale debba essere la forma e la sostanza di una pubblica amministrazione in grado di cogliere e vincere le sfide per il futuro.

Prima di Jeremy Rifkin, diversi sono stati gli esperti coinvolti a FORUM PA negli ultimi cinque anni: dai premi Nobel Amartya Sen e Edward Prescott al padre del pensiero creativo e del pensiero laterale Edward De Bono, fino, lo scorso anno, al coinvolgimento di uno dei più grandi esperti a livello internazionale di Pubblica Amministrazione, William D. Eggers.

Come più volte abbiamo scritto, infatti, siamo convinti che, a fronte delle sfide sempre più complesse che la PA si trova ad affrontare, non basti solo migliorarne i livelli di funzionamento e l’efficacia dell’operare, ma sia anche necessario immaginare, sperimentare ed introdurre nuovi modelli operativi capaci di superare e sovvertire quell’approccio ancora prevalente di natura burocratica e verticale.

L’appuntamento annuale di FORUM PA diventa l’occasione per dare spazio all’analisi e al confronto sui temi legati alla condivisione (amministrazione condivisa), alla rete (“governo con la rete”), alla trasparenza (open government e open data), alla collaborazione (Stato partner). In particolare quest’anno il programma segue la visione di “una PA agile per la crescita inclusiva”, ispirata da due distinti documenti dell’OCSE.

E’ in questo contesto che si inserisce la presenza di Jeremy Rifkin con cui confrontarsi, partendo dai temi del suo ultimo libro La società a costo marginale zero, sui temi inerenti l’innovazione, l’economia collaborativa, il ruolo della amministrazione pubblica in una società ibrida in cui la produzione sarà in buona parte diffusa e basata sul “Commons collaborativo”.

Sul pensiero di Rifkin – e sul suo contributo al nostro lavoro – torneremo in diverse occasioni, qui vogliamo avviare una riflessione su come l’approccio riconducibile alle nuove dinamiche innescate dalla c.d sharing economy o meglio dell’economia della condivisione, possano contribuire alla costruzione di una nuova PA.

Semplificando, sono tre gli aspetti, che in diverse occasioni e con interlocutori portatori di istanze e competenze differenti andremo ad indagare:

  • le esperienze di natura comunitaria. Quelle forme di condivisione basate prevalentemente sull’economia del dono e dello scambio senza, quindi, implicazioni di natura commerciale. Gli esempi, anche in Italia, sono tantissimi: dai Gruppi di Acquisto Solidale, alle cooperative sociali fino ai portali di scambio oggetti come “ Te lo regalo se vieni a prenderlo”;
  • le esperienze peer to peer. In questi casi lo scambio spesso avviene dietro corrispettivo economico o, comunque, tramite una piattaforma commerciale che abilita la messa in comune di risorse, servizi e prodotti. In questo caso, gli esempi più noti sono quelli di BLABLAcarDryfeTaskRabbit e il più noto Airbnb;
  • infine, quelle esperienze che ricondurrei all’approccio social business, in cui la condivisione non segue più una logica tra pari ma un progetto imprenditoriale di tipo Business To Consumer. Qui gli esempi sono quelli noti di Uber ma, soprattutto, i grandi progetti imprenditoriali legati alla mobilità: Car2GoEnjoy.

In che modo queste esperienze si riflettono sull’evoluzione che dovrebbe investire la nostra PA?

Per prima cosa la PA dovrebbe assecondare e facilitare i processi in corso promuovendo al suo interno un cambiamento di natura culturale ed organizzativo ancor prima che normativo. L’economia della condivisione è incompatibile con la prassi, di gran lunga dominante, della PA burocratica e verticale che segue un approccio monopolistico per quanto riguarda l’erogazione dei servizi pubblici. Prendiamo l’ esempio del trasporto pubblico urbano, per decenni appannaggio esclusivo del soggetto pubblico. Le nostre città stanno cambiando (qualcuna più velocemente, altre, come Roma, a passo incredibilmente lento) grazie alla comparsa di nuovi attori che offrono servizi complementari o alternativi a quelli pubblici. Con il carsharing, il bikesharing, lo scootersharing, il ridesharing la mobilità si sta trasformando. E l’offerta sarà ancor più conveniente e completa quando, anche in questi settori, saranno rimossi gli ostacoli per le condivisioni peer to peer, tra pari.

La PA ha sicuramente davanti a sé la sfida di valorizzare questi apporti acquisendo gli strumenti e le competenze per governare la rete dei diversi attori (sul governo con la rete vedi i nostri numerosi articoli), nell’ottica di favorire la comparsa di nuove soluzioni.

Ma il soggetto pubblico non si può limitare a questa funzione abilitante, ma può e deve diventare esso stesso soggetto attivo nell’adozione della cultura della condivisione, creando le condizioni per la condivisone di beni e servizi tra enti pubblici volta ad eliminare gli sprechi e ad ottimizzare le risorse andando ad utilizzare e ottimizzare gli strumenti normativi già esistenti come le Unioni di Comuni e la gestione associata (vedi il dialogo tra Chiara Buongiovanni e il prof. Collevecchio: Legge sharing economy e PA collaborativa: perché partire da gestione associata ed Enti locali).

Due aspetti, questi, compresi nella proposta di legge “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” su cui occorre lavorare nell’ottica di miglior definizione e maggior approfondimento (vedi le osservazioni di Simone Cicero alla proposta di legge).

A FORUMPA2016 ne parleremo, con Rifkin e tra di noi. Non mancate.

P.S. A questo indirizzo troverete la mappa concettuale alla base di questo articolo

Stay tuned and tweet on #forumpa2016

Roma brucia anche di energie positive #laltraCapitale

Le notizie che si alternano questi ultimi giorni sulla città di Roma sono inequivocabili e ci restituiscono una capitale sopraffatta da logiche affaristiche e criminali. E questo avviene in un periodo in cui è più forte il disagio sociale ed economico sul territorio e in cui inevitabilmente crescono le tensioni di coloro che quotidianamente sentono traditi i propri bisogni e necessità.

A leggere i giornali e i commenti ci troviamo davanti a una città in bilico tra il commissariamento per il fallimento della politica e la rivolta che trasformerebbe in poco tempo le nostre periferie nelle banlieue parigine.

Senza nulla togliere alla drammaticità della situazione, la lettura attuale rischia di non tener conto di una realtà molto più complessa e di non interpretare, o peggio ancora non ascoltare, quelli che potrebbero essere i prodromi di un nuovo modo di intendere la cittadinanza urbana.

Le periferie urbane, e quella di Roma tra le altre, stanno velocemente diventando non solo i luoghi dove si addensano i problemi ma anche contesti dove, spesso, si concentrano le energie e le iniziative in grado di affrontarli con approcci nuovi. Diventano i luoghi dove si fa innovazione sociale sperimentando nuove forme di governo del territorio e, soprattutto, nuovi rapporti tra governati e governanti nel tentativo di superare quell’approccio, ancora prevalente, di governo burocratico e bipolare che si arroga il monopolio della gestione della cosa pubblica, a favore di una logica sussidiaria dove i cittadini stessi collaborano alla valorizzazione dei beni comuni. Un patrimonio che arricchisce quello tradizionale costituito dalle reti di solidarietà e del volontariato, introducendo capacità progettuali e innovative mai sperimentate prima.

È’ quella che, riprendendo la definizione usata da Roger Keil, chiamiamo Suburban Revolution e a cui abbiamo dedicato un’importante sessione di lavoro nell’ultima edizione di Smart City Exhibition mettendo insieme innovatori civici, amministratori, associazioni, urbanisti e di cui ha parlato anche, la scorsa settimana, Paolo Pagliaro nel suo approfondimento serale su la7, in una puntata dedicata appunto all’innovazione urbana e alle periferie.

Seguendo questo approccio e lavorando sul territorio emerge, accanto a quella descritta dalla cronaca e commentata dagli editoriali, un’altra Roma.

Roma corrotta è anche la Roma della Fondazione Mondo Digitale che, nella storica via del Quadraro, organizza corsi di alfabetizzazione informatica per gli anziani e di programmazione per i più giovani, creando la Palestra dell’innovazione quale luogo per l’apprendimento esperienziale e la pratica dell’innovazione in tutte le sue espressioni: innovazione tecnologica, sociale e civica.

Roma corrotta, però, è anche la Città delle mamme che da anni è impegnata in prima fila per rendere la città più accogliente soprattutto per i bambini e che per prima ha sperimentato nuove forme di cogestione del verde pubblico e degli spazi di lavoro.

Torpignattara, altra periferia storica dove recentemente i residenti hanno manifestato contro la criminalità straniera, la Roma corrotta, invece, è anche La Piccola orchestra di Torpignattara, è il Karawan festival che si è concluso qualche giorno fa, è il Cantiere Impero, impegnato da anni per la riapertura del cinema di quartiere, è un attivissimo Comitato cittadino che lavora insieme agli immigrati nella pulizia del parco del quartiere.

Roma corrotta è anche l’Associazione Genitori Scuola Di Donato che dal 2003 mantiene aperti e manutiene gli spazi scolatici per attività sportive e ricreative e che è diventata, negli anni, un importante agente di inclusione e di integrazione in un quartiere, l’Esquilino, a fortissima presenza di immigrati.

Roma, infine è anche il Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino che quest’estate ha vinto la battaglia per restituire al quartiere un importante spazio verde altrimenti destinato ad ospitare un centro commerciale.

Potrei andare avanti per molto, così come potrei redigere un’analoga lista per gli altri 8.000 comuni italiani, perché alla crisi della politica e, spesso, delle stesse istituzioni, c’è anche chi rifiuta di reagire chiudendosi nei microcosmi personali e nel soggettivismo ma decide piuttosto di investire nel bene comune creando nuovo capitale sociale.

Speriamo, per il bene della città, che l’estraneità del Sindaco Marino venga confermata nei prossimi giorni così come speriamo che a questa giunta venga data la possibilità di proseguire fino alla scadenza della legislatura. Ma non basta. Governare la complessità di una grande città significa anche e soprattutto creare le condizioni affinché le energie civiche che la compongono non vengano disperse, significa, per l’amministrazione, diventare soggetto attivo e abilitante di quei progetti di innovazione sociale in grado di affrontare in modo nuovo problemi finora irrisolti, significa mettere finalmente il cittadino al centro del territorio in quanto portatore non solo di bisogni ma anche di competenze e di soluzioni. E, permetteteci, di ben alt(r)e aspirazioni.

ICity Rate: la conoscenza al centro delle smart city

In occasione di Smart City Exhibition che comincerà a Bologna il prossimo 22 ottobre presenteremo la terza edizione di ICity Rate, la nostra indagine statistica sulle città italiane. Anche quest’anno si è trattato di un importante impegno della cui necessità, però, siamo sempre più convinti. Come scrive Bloomberg, l’ex sindaco di New York, nell’introdurre l’ultimo libro di Goldsmith: If you can’t measure it, you can’t manage it. Se non la conosci, se non puoi misurare le dinamiche e gli effetti delle politiche di una città, non puoi governarla. E questo è ancor più vero in questi ultimi anni in cui i fenomeni sociali, economici, ambientali e culturali si sono fatti sempre più complessi, articolati e frammentati. Anni in cui sono mutate le stesse categorie sociali  tradizionali creando nuovi ibridi con comportamenti, bisogni ed aspettative diverse. I rapporti venditore-consumatore, dipendente-imprenditore, governanti-governati sono sfumati (Blur, scrivevano Davis e Meyer già diversi anni fa). Per non parlare del mercato del lavoro, dei flussi migratori nelle grandi città, dell’invecchiamento della popolazione, dei bisogni sanitari, etc. Anni in cui le città sono al centro di mutamenti climatici che si trasformano in vere e proprie emergenze sociali (vedi il caso di Genova).

ICity rate è la risposta a queste necessità sempre più impellenti? Sicuramente no. Il nostro rating è però, allo stato attuale, uno dei pochi strumenti aperti che è a disposizione delle città che vogliono migliorare la capacità di comprendere i processi in corso, anche se certamente, da solo, non basta ad interpretarne la complessità.

Citando Goldsmith mi riferivo al suo ultimo libro The Responsive City, la città in grado di rispondere ai diversi bisogni in modo efficace, trasparente e più economico. E per far questo utilizza le metodologie e le nuove  tecnologie per trattare al meglio le informazioni e per trasformarle in conoscenza e poi in decisioni. Assumendo questa prospettiva, di mettere la conoscenza al centro dell’attività di governo di una città, la Responsive City utilizza tutte le informazioni in suo possesso che derivano dal funzionamento urbano sfruttando le metodologie di Data Analysis.  Una Responsive City è una città che sa utilizzare i dataset liberati dai suoi diversi uffici ed è in grado di ottenere i dati provenienti dalle attività private. Se le informazioni sono strategiche, sono infatti un bene comune e la Responsive City deve  decidere quali sono le informazioni private di interesse sociale. A questi si aggiungono i dati prodotti dai cittadini stessi, tramite i sensori embedded in gran parte degli strumenti di uso quotidiano (a cominciare, ovviamente, dai telefoni e dall’automobile) per finire con le informazioni di monitoraggio ambientale.

Le informazioni ci sono, anche le tecnologie, c’è bisogno delle competenza ma soprattutto di una visione politica che condivida la necessità di governare la complessità con nuovi strumenti. Per ora in Italia tutto questo non c’è.

ICity Rate è importante proprio per questo e vuole essere funzione e strumento di un modo diverso di valutare le informazioni. E’ funzionale come strumento gratuito a disposizione di tutti coloro che operano nelle città fornendo un set unico di indicatori come completezza e trasparenza, è strumentale alla diffusione di una nuova cultura di governo delle città che metta la conoscenza al centro dei poteri decisionali.

Come spesso succede, non tutti sono d’accordo con la costruzione di indici e di rating, e mettono l’accento su quel che gli indici non possono misurare, come ad esempio la capacità di reagire a eventi tragici come un’alluvione, e penso ovviamente a Genova. Non possiamo che ripetere a tal proposito che certamente un rating non è una panacea, ma anche ribadire con forza che la conoscenza dei fenomeni, la loro misurazione, la lunga e paziente costruzione di indici condivisi è in sé uno strumento indispensabile per governare il cambiamento e indirizzarlo verso uno sviluppo equo e sostenibile. Per far questo abbiamo elaborato una metodologia, l’abbiamo testata, l’abbiamo condivisa con gli stakeholders, l’abbiamo esplicitata in un sito dedicato aperto a tutti e la mettiamo a disposizione delle città, assieme ai dati che sono accessibili liberamente e agli indici che possono essere navigati, ma anche personalizzati a seconda delle necessità e delle politiche. Questo è il nostro contributo. Chi sa far meglio è benvenuto.

Un’ultima parola sulle classifiche. Non dimentichiamoci che la strada italiana alle smart city è ancora lunga e difficile, il nostro indice ne misura oggi i vincitori di tappa, ma le sfide da superare sono tutte davanti. Il rischio nel continuare a guardarsi nell’ombelico, invece di guardare fatti e numeri, è di smarrirsi e di perdere anche quest’occasione.

Videolezione: “La seconda fase degli Open Data”

Qualche mese fa FORUM PA ha proposto una riflessione sullo sviluppo del tema degli open data nel nostro Paese manifestando la necessità di passare ad una “seconda fase”.

In questi mesi abbiamo continuato a lavorare a questa idea, tanto da sviluppare un vero e proprio modello che verrà esposto a Smart City Exhibition, il prossimo 24 ottobre.

In questa video Lezione, Gianni Dominici riassume tutti gli elementi della riflessione e lancia l’appuntamento a #sce2014

#RivoluzionePA è possibile, e lo abbiamo dimostrato tutti insieme a #FPA14

Oltre i numeri di grande rilievo, oltre i comunicati e l’attenzione della stampa, sono le sensazioni quelle che hanno contraddistinto questa edizione della Manifestazione. Le sensazioni, diffuse e condivise, che cambiare si può ora e subito, che cambiare è utile perché una nuova PA diventa un fattore di sviluppo del paese e di miglioramento della qualità della vita. Che cambiare si deve, e si deve farlo tutti insieme.

Lo ha reso evidente, per prima, il ministro Madia dimostrandoci di saper ascoltare e che questo governo vuole andare avanti, veloce, ma lo vuole fare promuovendo la partecipazione e la collaborazione.

Lo hanno dimostrato le migliaia di persone che hanno lavorato insieme in convegni, tavoli, laboratori, quelli che ci hanno seguito tramite twitter o grazie allo streaming. Non c’era rassegnazione, non c’era disillusione o rabbia ma la consapevolezza che la differenza la facciamo se lavoriamo tutti insieme. Fino ad oggi, infatti, non sono mancate le idee, o i progetti e le soluzioni è mancata la capacità di fare squadra. E, finalmente, aver raggiunto questa consapevolezza ha liberato energia vitale, ha delineato un progetto condiviso da raggiungere tutti insieme.

In diverse occasioni, nell’ambito di #FPA14, ho citato una frase che il presidente Obama ha usato in un mesaggio alla nazione: “non possiamo affrontare il futuro con una pubblica amministrazione del passato”. Insieme, dobbiamo costruire la PA del futuro, capace di essere soggetto abilitante di inziative e proposte. Una PA espressione di uno stato che deve essere partner di cittadini e di imprese. Che deve dare spazio e supporto a nuove forme di cittadinanza attiva attraverso gli open data, attraverso le inziative di condivisione di beni e servizi, attraverso i metodi di co-design dei servizi.

In questo contesto, il processo da noi avviato con FoGG (Future of Government Group) ha trovato terreno fertile per nuove idee e proposte. In questi tre giorni abbiamo raccolto contributi e lavorato su un documento di lavoro che oggi sarà consegnato al governo tramite rivoluzione@governo.it. Abbiamo deciso di essere una delle oltre 23.000 voci che si sono già espresse per mail, sicuri, insieme a tutti gli altri, di essere ascoltati.

 – Il testo della proposta inviata al Ministro Madia dal gruppo Future of Government – FoGG.
– Il documento di scenario “Lo stato partner. Proposta per un’integrazione alla riforma della PA“, con il contributo del Future of Government – FoGG.

A che serve la PA? La Riforma non basta, vogliamo la vera rivoluzione*

The government is us; we are the government, you and I. Theodore Roosvelt

Nel rileggere, a freddo, la lettera a firma Madia e Renzi sulla riforma della PA la sensazione rimane quella della prima ora, di trovarsi davanti a un documento, a una serie di azioni che se portate avanti saranno in grado di cambiare in profondità la nostra pubblica amministrazione rendendola più efficace, più snella e più trasparente.

Ma con la rilettura dei 44 punti cresce anche la sensazione che manchi qualcosa e che le azioni proposte potrebbero non essere sufficienti. La PA che ne uscirebbe, infatti, è una PA rinnovata ma anche incredibilmente uguale a se stessa, soggetto diverso e lontano dalle dinamiche sociali e culturali in atto in questo paese. La riforma elude una domanda: la PA che abbiamo è quella che ci serve?  E allora ci si rende conto che manca un progetto più ampio, una regia complessiva in grado di definire quello che dovrebbe essere il ruolo e la forma di una pubblica amministrazione in un paese profondamente mutato. Alla riforma manca la domanda ontologica, in questo momento essenziale e non retorica: a cosa serve la PA?

Esiste oggi un ambito di bisogni che travalica il campo classico dei servizi offerti dalla PA e che obbliga l’amministrazione a ripensare il proprio ruolo e a ri-progettare le politiche pubbliche. Lo schema classico che vede pubblico e privato contrapporsi bipolarmente è oramai e da tempo superato: esiste una realtà in cui collaborano (e non competono) soggetti diversi: cittadini (organizzati e non), imprese, istituzioni.

Si passa dal paradigma di uno Stato che esiste in quanto soggetto, a quello di uno Stato che abilita i cittadini e i diversi attori sociali ponendo le migliori condizioni perché questi siano in grado di agire. 

Sono diversi i modelli sociali e culturali che in questi anni si sono affermati proponendo una nuova visione della società e che devono essere fonte di ispirazione per la rivoluzione culturale e organizzativa all’interno della PA. I principali sono:

1- Sharing economy: Una economia collaborativa o di condivisione, nata come fenomeno di nicchia per svilupparsi rapidamente e diffondersi in moltissimi settori, complici la crisi economica e una crescente sensibilità nei confronti dei temi ambientali e della sostenibilità.

2- Open Government: Un’amministrazione del bene pubblico trasparente e accessibile che risponda agli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Lo scopo è utilizzare i nuovi strumenti e tecnologie della comunicazione per aumentare il grado di apertura e accessibilità dell’operato delle amministrazioni nei confronti dei cittadini, tanto in termini informativi quanto di partecipazione al processo decisionale.

3- Amministrazione condivisa: Modello secondo il quale gli “amministrati” diventano cittadini attivi e responsabili che “alleandosi” con l’amministrazione contribuiscono alla risoluzione di problemi di interesse generale.

4- La società dell’empatia: Teoria secondo la quale lo sviluppo della società è strettamente legato in relazione allo sviluppo della capacità di empatia tra individui. È proprio l’empatia a dare un vantaggio evolutivo all’uomo. Un ingrediente fondamentale, dunque, per la società, una sorta di collante sociale. La responsabilità nei confronti dello sviluppo della società è condivisa e si basa sulla capacità di immedesimarsi nella condizione di un altro soggetto.

5- Social Business: Il social business rappresenta una formula imprenditoriale innovativa, perché è orientata alla soluzione di problemi sociali e/o della comunità di riferimento e perché coinvolge, con modalità di partecipazione e democraticità, gli stakeholder interni ed esterni.

Tutti i modelli emergenti si poggiano su principi comuni:

1. visione sistemica e partecipativa;

2. importanza del capitale sociale;

3. centralità ai beni relazionali;

4. priorità ai valori sociali;

5. attenzione per i beni comuni;

6. ritrovata centralità della dimensione della “comunità” e dei territori;

7. trasparenza e accountability;

8. cultura dell’openness;

9. nuova attenzione alla collaborazione pubblico-privato;

10. evoluzione dal cittadino “portatore di bisogni” al cittadino competente.

I diversi modelli, emersi grazie al confronto tra i soggetti che in Italia si occupano di analisi e studio del rapporto tra Stato e società e dei confini della “funzione di pubblica utilità”, hanno elementi comuni che portano ad una definizione nuova del ruolo che si configura per l’amministrazione pubblica.

La direzione che, con moto autonomo ovvero senza una regia alta, stanno già seguendo i territori, suggerisce una nuovo concetto di stato rispondente a nuove funzioni: lo stato diventa partner o partner state[1], un soggetto che abilita e supporta le iniziative e la collaborazione tra i diversi attori sociali. Un soggetto che collabora e non ostacola.

Un cambiamento di prospettiva che considera i cittadini non solo come destinatari dell’intervento pubblico (a seconda dei casi utenti, pazienti, assistiti, clienti) ma anche come portatori di capacità e di competenze. Un cambiamento che sancisce l’abbandono del “paradigma bipolare” a favore del paradigma sussidiario in cui la partecipazione civica viene considerata indispensabile nella creazione di valore pubblico.

La lettera di Renzi e della Madia si rivolge direttamente ai dipendenti pubblici, mettendoli al centro del processo della riforma. Forse quello che manca è proprio questo, la consapevolezza che le amministrazioni non hanno il monopolio del bene pubblico e il vero cambiamento si afferma solo coinvolgendo anche i cittadini e agli altri attori sociali a cui dovremmo rivolgerci con lo stesso accorato appello.

I pericoli dei Big data

Sto lavorando sul tema dei Big Data e leggendo riflessioni sul problema della privacy e della possibile ingerenza dell’analisi dei dati sulla nostra vita. Poi mi chiama un numero sconosciuto, è una signorina per conto della Vodafone che, visto che sono cliente mobile, mi propone uno sconto se aderisco alla telefonia fissa. E’ la ventesima volta che mi chiamano in pochi mesi con una frequenza di una telefonata ogni circa 15 giorni, a queste, con la stessa frequenza, si aggiungono sms che mi mandano concon la richiesta a rispondere se sono interessato a questa imperdibile offerta.

Io sono due anni che ho la linea fissa Vodafone, da allora, cercando di essere gentile, cerco di farglielo capire e la risposta oggi è stata di invitarmi a iscrivermi  al registro delle opposizioni.

Almeno per ora, i BiG Data non mi fanno cosi paura.

 

 

 

 

Il car sharing privato arriva a Roma

Nella cultura della condivisione sono tre le possibili soluzioni rispetto alla mobilità tramite auto: il Public to Consumer  (P2C) sono le soluzioni di servizio pubblico destinate ai cittadini. A Roma da tanto tempo esiste il sistema di car sharing gestito dall’ATAC . Le tariffe sono dignitosissime: 2,03 euro all’ora (dalle 7  a mezzanotte) più 0,34 centesimi al chilometro. Incomprensibilmente alti, invece, i costi di accesso: 100 euro di cauzione più  101,63 di abbonamento annuo, decisamente in grado di scoraggiare i meno convinti. Dal sito non si evince di quanto auto sia composto il parco disponibile che però è composito e articolo fino a prevede anche dei furgoni carg.,  Le macchine vanno prese e rilasciate nelle stazioni che sono numerose ma, inevitabilmente, non omogeneamente distribute con alcuni municipi completamente sprovvisti. Tanto per capirci, per chi conosce Roma, nell’area sud-est della capitale il parcheggio più periferico è posizionato accanto alla basilica di San Giovanni.  Le auto possono transitare nelle zone ZTL, parcheggiare nelle face blu e  utilizzare le corsie preferenziali concesse sai taxi. Poi esiste il Business to Consumer (B2C) organizzato dai privati. I primi a comparire in Italia sono stati, rispettivamente, Car2go ed Enjoy che hanno avviato la loro attività partendo da Milano. Il primo è diffuso in molte città del mondo ed è gestito dalla Mercedes che produce le Smart oggetto del servizio. Un’azienda manifatturiera, quindi, che a fronte della crisi mondiale dell’auto diventa anche un società di servizi. Il secondo è promosso dall’Eni ed utilizzo le FIAT 500. Tutte e due stanno sbarcando ora a Roma con car2go che battuto il concorrente lanciando il servizio per fine marzo (ma è già operativo con un ridotto numero di auto disponibili). Le differenze con il servizio pubblico:

  • costi annuali bassissimi (Car2go) o inesistenti (enjoy);
  • costi orari decisamente più alti (anche se la tariffazione è al minuto): intorno ai 15 euro senza costi chilometrici;
  • un’enorme flessibilità: è possibile prendere (trovandola con un app) e lasciare l’auto in qualsiasi parte della città compresa dal servizio (sempre per fare l’esempio della sono sud-est di Roma, il servizio è attivo fino a Torpignattara)
  • le auto possono circolare in zona ZTl e essere parcheggiate in fascia blu ma non possono, a differenze del servizio ATAC, utilizzare le preferenziali che includono i taxi.

Il terzo sistema? E quello peer to peer (p2p),  privati che emettono a disposizione (a pagamento) la proprio auto ad altri privati così da ammortizzare gli enormi costi di gestione dell’auto in proprietà. Una soluzione che si sta diffondendo in molte città e che in Italia dovrebbe arrivare presto grazie a Dryfe una startup che promette di risolvere i diversi vincoli (dall’assicurazione alle responsabilità civili) che un sistema com e questo solleva.

Quindi? Dipende dai bisogni. Certo che i costi annui dell’ATAC fossero molto più bassi si potrebbe avere le tre tessere (più la soluzione tra privati) e poi scegliere secondo il bisogno. In prospettiva la possibilità di lasciare l’auto ovunque potrebbe non essere più possibile. Infatti in diverse città del mondo il parco macchine Car2go è elettrico, riducendo l’impatto ambientale diretto sulla città. Per poter ottenere questo (ed in una città come Roma è sicuramente auspicabile) bisognerà tornare alle stazioni fisse con colonnine di ricarica. Ma, intanto, così è.

P.S. Nel bagagliaio della Smart (e ovviamente anche in quello della 500) entra la Bromton piegata.

Per una seconda fase degli Open Data in Italia*

L’Open Data Day, celebrato a livello internazionale, è sicuramente l’occasione per una riflessione su quella che è stata in questi anni la via italiana agli Open Data e su quali siano le sfide da affrontare. Quella che possiamo chiamare, infatti, la prima fase degli Open Data è da considerare conclusa anche da noi. Una volta, parlando di questo processo, Tim Berners Lee scriveva che il percorso di liberazione degli Open Data deve partire dall’alto, dal livello intermedio e dal basso. Ed è quello che è successo negli ultimi tre anni anche in Italia[2].

Il livello più basso è quello che si è attivato prima con il sorgere di associazioni e di comunità che hanno sollecitato le prime iniziative e, soprattutto, contribuito al nascere di una cultura del dato aperto anche da noi. Fra le tante iniziative le più significative da citare sono sicuramente Gli Stati Generali dell’Innovazione[3] e la comunità di Spaghetti Open Data[4] così come l’Associazione Openpolis[5].

Il livello intermedio ha registrato il protagonismo soprattutto delle regioni come Piemonte, Emila Romagna e Veneto che a lungo hanno mantenuto la primogenitura tra gli enti locali intermedi. Importante, in quella fase, la discesa in campo di una grande azienda quale Enel[6] e, soprattutto, la presa di posizione del più grande e importante produttore di dati italiano: l’ISTAT[7][8].

Al terzo livello, infine, le azioni che provengono dal Top, come direbbe Berners-Lee, portate avanti a livello governativo, di carattere sia normativo sia operativo. Dal punto di vista normativo, come al solito, nel nostro paese non ci si è risparmiati producendo un framework complesso e, per alcuni tratti, contraddittorio[9]. Ma è dal punto di vista politico e operativo che la strada italiana agli open data è stata segnata in un primo momento da un’insolita vitalità che ha portato istituzioni, associazioni e parte politica (i rappresentanti dei tre livelli) a collaborare insieme. Una delle prime iniziative risale al marzo 2011 con il progetto MiaPA[10], che ha portato alla pubblicazione del primo database in formato aperto degli indirizzi della pubblica amministrazione (RubricaPA)[11] e alla definizione e alla diffusione della licenza Italian Open Data License v1.0[12] per la pubblicazione dei dati pubblici da parte delle diverse pubbliche amministrazioni

Ma è con il lancio di tre iniziative concrete e congiunte che si è dato un importante contributo alla causa degli open data in Italia[13]:

  • il portale dati.gov.it [14]il Portale dei dati aperti della PA, nato per consentire a cittadini, sviluppatori, imprese, associazioni di categoria e alle stesse pubbliche amministrazioni di pubblicare ed usufruire dei dati aperti della Pubblica Amministrazione. Partendo dalle esperienze già in corso, il portale è stato creato per valorizzare le esperienze esistenti così come per sensibilizzare e supportare le amministrazioni che ancora non hanno messo in cantiere iniziative specifiche;
  • la pubblicazione del Vademecum Open Data. Come rendere aperti i dati delle pubbliche amministrazioni, che si proponeva come il primo strumento per supportare operativamente le pubbliche amministrazioni nella pubblicazione dei loro dati[15];
  • il contest Apps4italy, un concorso aperto a cittadini, associazioni, comunità di sviluppatori e aziende per progettare soluzioni utili e interessanti basate sull’utilizzo di dati pubblici, capaci di mostrare a tutta la società il valore del patrimonio informativo pubblico. Il Contest è stato un esempio della collaborazione auspicata tra i diversi attori impegnati sui temi degli open data: nato dal basso, come idea di associazioni e singoli impegnati su questi temi, ha coinvolto nel suo percorso importanti istituzioni pubbliche e private diventando, nella sua forma presentata oggi al pubblico, un’importante iniziativa che lega il Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione agli altri attori attivi nei diversi territori[16].

Una partenza che, inevitabilmente, non poteva essere sostenuta da una cultura consapevole e diffusa all’interno della PA italiana. Una nostra indagine tra la community di FORUM PA (prevalentemente di dipendenti pubblici) lanciata nel febbraio 2012 registrava che solo il 7% ha una conoscenza approfondita del tema, appena il 28% buona, il 39% sufficiente e il 26% addirittura scarsa[17].

Un primo bilancio

Questi due anni passati dai primi vagiti dell’Open Data in Italia non sono trascorsi senza ulteriori novità. E’ cresciuto il numero delle amministrazioni coinvolte, si è rafforzata la struttura normativa[18] sono nate soluzioni innovative. Tra tutte, sicuramente una delle più interesanti è stata la presentazione del portale OpenCoesione, voluto fortemente dall’allora ministro Barca “è il primo portale sull’attuazione degli investimenti programmati nel ciclo 2007-2013 da Regioni e amministrazioni centrali dello Stato con le risorse per la coesione. I dati sono pubblicati perché i cittadini possano valutare se i progetti corrispondono ai loro bisogni e se le risorse vengono impegnate in modo efficace”. Ma, appunto, OpenCoesione rappresenta una eccezione rispetto alla maggior parte delle iniziative portate aventi in questi anni[19]. Volendo fare un primo bilancio due sono gli aspetti su cui probabilmente conviene riflettere.

Il prevalere di una cultura della trasparenza statica. Per molte amministrazioni la pubblicazione dei dati viene vissuta come un’ulteriore incombenza piuttosto che un’opportunità, anche i database pubblicati spesso non rispondono ad una necessità o una domanda specifica ma una mera logica di opportunità o disponibilità. La disomogenea diffusione territoriale delle iniziative. La mappa pubblicata nel portale dati.gov.it è eloquente[20]: gran parte dei data store italiani sono al centro-nord e le cartina che ci viene restituita è quella di un Italia divisa in due che ben conosciamo[21]. Esiste dunque una questione meridionale con gli Open Data? Non esattamente, esiste un problema, grave, in assoluto, sulla capacità di innovare (dal punto di vista organizzativo, procedurale e tecnologico) nel SUD del nostro paese. Se passiamo dai dati aperti al tema più complessivo delle Smart City i risultati sono gli stessi. La seconda edizione del nostro studio ICity Rate[22] ha confermato le tendenze in atto: tra le città capoluogo di provincia la prima città del SUD che appare in classifica è Cagliari che registra il 47°posto in assoluto e raccoglie 375 punti contro i 515 della capolista Trento[23].

E’ evidente che manchi qualcosa. In nessun altro paese il dibattito e la prassi sugli Open Data sono stati relegati nell’angusto spazio del dibattito normativo, ad una dialettica tra adempimenti e la loro evasione.

Il futuro del governo

I diversi processi di innovazione in corso che investono la maggior parte delle pubbliche amministrazioni non possono essere ridotti a mero esercizio tecnologico o, peggio ancora, normativo ma devono essere ricondotti alla più ampia riflessione su quali saranno le forme istituzionali ed organizzative più idonee ad affrontare le sfide. La crisi che stiamo vivendo non è limitata ai processi in corso ma anche ai modelli e agli approcci fino ad oggi utilizzati. Questa considerazione vale ancora di più per la Pubblica Amministrazione che si trova sempre meno risorse (di natura finanziaria ma anche organizzativa e culturale) per affrontare sfide e problemi di natura sociale, economica e culturale sempre più complessi e articolati.

Per questo motivo in gran parte dei paesi occidentali si stanno sperimentando e imponendo nuovi modi di intendere il governo e la pubblica amministrazione e, soprattutto, il rapporto tra la PA e i cittadini governati[24].

Secondo l’enfasi e la centralità accordati ad un aspetto piuttosto che ad un altro, possiamo parlare di innovazione sociale, governo della rete, innovazione civica, innovazione empatica, sharing economy o open government (solo per citarne alcuni).

Differenti approcci che però condividono importanti dimensioni in comune:

  • priorità ai valori sociali
  • visione sistemica
  • centralità ai beni relazionali
  • coesione sociale
  • attenzione per i beni comuni
  • importanza del capitale sociale
  • ritrovata centralità della dimensione “comunità” e territori

Le difficoltà nel nostro paese nell’adottare nuovi modelli operativi è il prevalere di una cultura di governo che segue la logica bipolare tipica di un’amministrazione autoritaria che parte dal presupposto che le amministrazioni hanno il monopolio del bene pubblico e i cittadini, nei diversi ruoli di utenti, pazienti, clienti o assistiti, ne sono i semplici destinatari.

Il superamento di questa logica e l’adozione di una prospettiva che veda i cittadini portatori non solo di bisogni ma anche di competenze, apre la strada a nuove forme di collaborazione, all’applicazione di quel principio di sussidiarietà che tramite la partecipazione civica crea valore pubblico.

Nascono cosi, per ora prevalentemente a livello sperimentale nel nostro paese, nuove forme di relazioni pubblico- privato basate sul crowdsourcing, sul co-design e sulla condivisione. Un’attività di sperimentazione che nasce soprattutto dal basso, nelle città, da sempre luoghi deputati all’innovazione e dimensione istituzionale più prossima nei rapporti con i cittadini.

Oltre la trasparenza

In questo contesto la trasparenza non è una concessione che arriva dall’alto ma è la sostanza stessa del rapporto di fiducia instaurato tra cittadini e politica e tra cittadini e amministrazione. E’ il presupposto per il sostegno alla definzione di una cittadinanza attiva e partecipata.

I dati sono un bene pubblico la cui disponibilità in termini di Accessibilità, Autenticità e Accuratezza deve essere garantita ma il loro vero valore discende dall’uso che se ne fa, dal processo di appropriazione sociale[25]. Il civic hacking diventa quindi un processo sociale in grado di produrre innovazione civica. Le cinque stelle di Tim Berners Lee sono state da tempo affiancate da quelle di Tim Davies[26] il cui tentativo è stato di “contestualizzare” più possibile il processo di liberazione dei dati. Un processo che presuppone una totale inversione di prospettiva: i cittadini non sono meri destinatari dell’intervento pubblico ma ne sono parte costituente. La partecipazione civica nella creazione di valore pubblico diventa la finalità principale da abilitare e rafforzare alimentando processi di trasparenza e partecipazione.

Da questa prospettiva, le iniziative di Open Data possono essere riconsiderate proprio sulla base del loro esplicito obiettivo di coinvolgere i cittadini[27] nella soluzione di problemi condivisi. In prima istanza, e senza pretesa di esaustività, si può ipotizzare una scale a quattro livelli.

I quattro step dell’Open Government Data Engagement [28]

Normativo Informativo Collaborativo Abilitante
I dati vengono liberati prevalentemente per adempiere ad una norma I dati vengono liberati all’interno di un contesto abilitante come un portale di dati I dati vengono rappresentati tramite applicazioni specifiche pensando ad un coinvolgimento diffuso. Il rilascio dei dati si inserisce in un contesto collaborativo   finalizzato al soddisfacimento dei bisogni primari delle famiglie e delle imprese I dati e dli strumenti operativi sono rilasciati per e insieme ai cittadini e agli attori locali (imprese, istituzioni locali) al fine di costruire nuovi servizi innovativi e innovare quelli esistentii
La cultura prevalente è la PA verticale basata sulle procedure La cultura prevalente è quella e-gvovernment La cultura prevalente è quella della trasparenza dinamica, dell’opengovernment e della cittadinanza attiva La PA condivisia , adottando in pieno il paradigma dell’opengovernment. Si realizzi il principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale, favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale
I cittadini sostanzialmente non sono convolti e si crea rischio di Digital DIvide Il pubblico principale è composto prevalentemente da Hacker, Data Journalist, Watchdogs Vengono raccolti i feedback dei cittadini, viene incentivata la partecipazione il monitoraggio sui dati. Si sostiene la creazione di community Vengono coinvolti in tutte le fasi: dall’analisi dei bisogni alla manutenzione del dato, al codesign dei servizi. Nuove forme di partecipazione alle decisioni e al controllo dei loro effetti nella comunità
Sezione valutazione trasparenza e merito del decreto trasparenza I portali dati.dov regionali e metropolitani Openmunicipio, E-part, Monithon. A scuola di Open Coesione
Browse, Search, , Extract, Download, Collecting Data, Data Divide Visualize, Contextualise, Report Filter data, Combine Data, Community, API, Inclusion, Connecting Data, Apps, Infographics Co-design, Empowerment, Enabling State, Co-governance, Civic Innovation, Data Driven decision

Il senso della riflessione è decisamente semplice: fino ad oggi molti processi innovativi nella PA (dal punto di vista tecnologico, istituzionale e organizzativo) sono stati comunque inseriti in un contesto dato, caratterizzato e definito da una pubblica amministrazione burocratica e gerarchica che per molti anni ha interpretato il proprio ruolo operando come monopolista del bene pubblico. Questo contesto ha spesso ridotto importanti fattori innovativi a pure norme da osservare in una logica attenta alle procedure piuttosto che agli obiettivi.

Il rischio che un movimento, un’innovazione, un processo come quello degli Open Data subisca la stessa sorte è fortissimo soprattutto se lasciato nelle mani dei giuristi e degli amministrativisti. In questi ultimi anni in Italia si è fatto abbastanza ma non a sufficienza puntando troppo su una logica di mera liberazione del dato e troppo poco sulla diffusione della cultura che ne ne dovrebbe essere alla base. La scorsa settimana abbiamo ripetuto tra la nostra community un’indagine che lanciammo esattamente due anni fa finalizzata a capire quali siano stati in questi mesi i cambiamenti di atteggiamento nei confronti degli Open Data. I risultati, però, dimostrano che ci stiamo muovendo troppo lentamente. Ad esempio alla domanda “Come definirebbe la sua conoscenza degli Open Data” nel 2012 riposero scarsa o sufficente il 65,7% dei rispondenti, nel 2014 tale percentuale è scesa si, al 58,6% ,ma probabilmente non quanto ci avremmo potuto aspettare. Quando invece abbiamo chiesto in quale fase l’Italia fosse nell diffusione degli Open Data questi sono stati i risultati nei due anni di confronto : Discussione e approfondimento (per il 29,6% nel 2012 e 29,8% nel 2014), di sperimentazione in alcune realtà (per il 52,4% nel 2012 e per il 58,3 nel 2014),di progressiva applicazione (8,6% nel 2012 e 8,1% nel 2014). L’unico aspetto positivo, la diffusa consapevolezza che stanno aumentando le esperienze di iberazione dei dati. Alla domanda se gli intervistati erano a conoscenza di amministrazioni che hanno liberato i dati, in due anni i “sì” sono passati dal 30 al 51%. [qui tutti i risultati]

E’ urgente, quindi, l’avvio di una seconda fase. Dopo il consolidamento delle esperienze accumulate, bisogna immaginare e definire nuovi obiettivi che vadano oltre il principio della trasparenza fine a se stessa ma che siano finalizzati a sostenere il cambiamento per una nuova pubblica amministrazione in cui il cittadino, i suoi bisogni, ma anche le sue competenze informino di se tutta l’azione pubblica. L’Open Data Engagement ben interpreta questa esigenza creando nuovi spazi e strumenti di collaborazione tra le diverse parti in campo. E’ evidente che, alzando l’asticella degli obiettivi da raggiungere, si sollevano nuove questioni legate alle capacità dei diversi attori in campo (cittadini, associazioni e PA) di raccogliere la sfida.

Il rischio, quando si parla di innovazione è di creare nuove forme di esclusione sociale o, comunque, delle azioni abilitanti un ristretto numero di persone e cioé di “empowers the already empowered”[29]. Promuovere il coinvolgimento dei cittadini significa quindi far ricorso ad azioni attive a cominciare dalla formazione e dal coinvolgimento delle giovani generazioni con iniziative come “A scuola di Open Coesione[30] che dimostrano la giusta sensibilità e il giusto approccio istituzionale nel sostenere la partecipazione.

Le competenza, in Italia, ci sono così come un patrimonio di energie vitali che sta portando avanti sperimentazioni di grande valore. Per non disperdere il capitale accumulato e non perdere anche questa partita con gli altri paesi è necessario però che anche la politica faccia, finalmente, il suo mestiere dando forza e sostegno a un processo che può diventare determinante nel riavvicinare i cittadini alla vita politica e civica del nostro paese.


NOTE

* Il presente articolo riprende e ampia uno da me scritto in occasione del lancio delle iniziative italiane di Open Data. Gianni Dominici, Open Government e Open Data, la prospettiva e la speranza italiana, Smart Innovation, 17 ottobre 2011. Alla revisione del testo hanno partecipato Vittorio Alvino e Vincenzo Patruno che mi hanno dato preziosi suggerimenti. La responsabilità di quanto affermato rimane, ovviamente, la mia.

[2] Open Data Study, in Open Society Foundation, Maggio 2010.

[3] Gli Stati Generali dell’innovazione “sono nati per iniziativa di alcune associazioni, movimenti, aziende e cittadini convinti che le migliori opportunità di crescita per il nostro Paese sono offerte dalla creatività dei giovani, dal riconoscimento del merito, dall’abbattimento del digital divide, dal rinnovamento dello Stato attraverso l’Open Government”.

[4] Spaghetti Open Data si autorappresenta così: “Siamo un gruppo di cittadini italiani interessati al rilascio di dati pubblici in formato aperto, in modo da renderne facile l’accesso e il riuso (open data). Ci sembra che questa pratica sia utile per alimentare la discussione sulle scelte che ci attendono; rendendo facilmente accessibili informazioni di qualità alta, contribuirà a renderla più razionale, allargata e fondata sui dati. Con tutti i suoi difetti, la nostra democrazia è un grandissimo dono che ci hanno fatto le generazioni passate: il minimo che possiamo fare, tutti insieme, è cercare di averne cura.”

[5] Associazione Openpolis: “Colleghiamo i dati per fare trasparenza, li distribuiamo per innescare partecipazione, strumenti liberi e gratuiti per aprire la politica.”

[7] Chiara Buongiovanni e Tommaso Del Lungo, Enrico Giovannini, ISTAT su Open data Italia, Smart Innovation, 20 ottobre 2011.

[8] Tra le esperienze più significative della prima fase di liberazione degli Open Data segnaliamo l’esperienza dellaCamera dei Deputati e delCnr, oltre a diverse amministrazioni locali (tra cuiRegione Piemonte, Regione Emilia-Romagna,Regione Veneto,Comune di Udine,Comune di Firenze)

[9] Solo per citare alcuni interventi alla data del 2010:

■  l’ Art. 21 della legge 69/2009 (trasparenza dei curricula e degli stipendi);

■  l’ Art. 11 del d.lgs 150/2009 (la sezione trasparenza valutazione e merito sui siti pubblici);

■  la Delibera n.105/2010 della Civit (la trasparenza dinamica e l’elenco dei dati che le amministrazioni devono esporre sui loro siti);

■  l’ Art. 52 comma 1-bis del Codice dell’Amministrazione Digitale, d.lgs 82/05 e d.lgs 235/2010 (promozione della diffusione e dell’utilizzo dei dati, obbligo di esporre i dati in formato aperto);

■  le Linee Guida per i Siti Web della PA – 2011 (è lo strumento per il miglioramento continuo della qualità dei siti web pubblici e specifica le caratteristiche dei dati aperti);

■  le Linee Guida per la stesura di convenzioni per la fruibilità di dati delle pubbliche amministrazioni – art. 58 comma 2 del CAD (indicano le modalità per consentire la fruibilità dei dati fra amministrazioni).

[10] Il progetto MiaPA fu proposto dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, insieme a Formez e FORUM PA. Per un approfondimento confronta MiaPA e il social check-in nella Pubblica Amministrazione, Saperi PA, 26 febbraio 2011.

[12] Vedi l’intervento di Salvatore Marras, Italian Open Data License, un licenza per i dati pubblici italiani, Saperi PA, 10 maggio 2011

[13] Vincenzo Patruno, Open Data, Italy has awoken, The Open Knowledge Foundation, novembre 2011.

[15] Il Vademecum è scaricabile dal sito del Formez PA

[16] ForumPA: Il premio Apps4Italy intitolato a Melissa Bassi e alle vittime dell’attentato di Brindisi, Saperi PA, 19 maggio 2012. Vedi anche Webinar Dati aperti per usi intelligenti: parte il contest Apps4Italy!, Saperi PA, 19 maggio 2012. Una recente riflessione di quell’esperienza la trovate su Apps4Italy: dove sono le startup premiate nel 2012?, Wired.it. Febbraio 2014

[17] Michela Stentella, PanelPA “Open data: l’Italia s’è desta?”, Saperi PA, 2 marzo 2012

[18] Tra tutti il più importante è l’introduzione anche in Italia del principio ‘open by default’, effetto della conversione in legge dell’Art. 9 del Decreto Legge 18 ottobre 2012 n. 179 che modifica l’art.52 del Codice dell’Amministrazione Digitale.

[19] Sicuramente un altro esempio interessante è legato alla comunità che si è creata in Italia, grazie soprattutto all’impegno di Maurizio Napolitano e Simone Cortesi, intorno al progetto internazionale di http://www.openstreetmap.org “OpenStreetMap è una mappa del mondo, creata da persone come te e libera di utilizzare sotto licenza aperta.” Infine, come, esempio di eccellenza il lavoro svolto con “La bussola della trasparenza” della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[20] Confronta “Dove sono i data store italiani?” su dati.gov.it

[21] A fronte del problema complessivo fanno ben sperare le recenti esperienze di Matera,Palermo eBari

[22] Gianni Dominici e Marta Pieroni, ICity Rate. La classifica delle città intelligenti italiane, FORUM PA edizioni, 2013

[23] Il problema è un po’ di sempre: anche la tua fase delle reti civiche e dell’egovernment ha registrato, in Italia, un sostanziale affanno dei territori del SUD vedi, tra gli altri, Gianni Dominici e Marta Pieroni, Le città digitali in Italia, 9° Rapporto, Franco Angeli, Mialno 2007

[24] Solo per fare un esempio il 6 febbraio scorso siamo stai invitati a Bruxelles al workshop “Public Services for Businesses: recipes for supporting growth”, in quella occasione da parte della commissione europea è stato distribuito il draft di “A vision for public services, with the aim of outlining the long-term vision for a modern and open public sector and the way public services may be delivered in an open government setting (enabled by ICT), i.e. how public services may be created and delivered seamlessly to any citizen and business at any moment of time.”

[25] “Open government data is a sort of civic capital, a raw material that can be transformed like a diamond in the rough into something far different ana much more powerful” in Joshua Tauberer, Open Government Data, Edizione Kindle, 2012, posizione 763

[26] Le cinque stelle di Tim Davies sono:

★ Be demand driven

★ ★ Put data in context

★ ★ ★ Support conversation around data

★ ★ ★ ★ Build capacity, skills and networks

★ ★ ★ ★ ★ Collaborate on data as a common resource

[27] Interessante a sostegno di questo approccio: Brett Goldstein e Lauren Dyson, Beyond Transparency, Open Data and the Future of Civic Innovation, Code for America Press, San Francisco, CA, 2013. Il libro raccoglie una serie di contributi di progetti di Open Data in ambito urbano e viene così introdotto: “It seeks to move beyond the rhetoric of transparency for transparency’s sake and towards action and problem solving. Through these stories, we examine what is needed to build an ecosystem in which open data can become the raw materials to drive            more effective decision-making and efficient service delivery, spu economy activity, and empower citizens to take an active role in improving their own communiities”

[28] Come tutti i modelli si stratta di una esemplificazione di una realtà complessa che però può essere utile per meglio capire le diverse sfaccettature dei processi in corso. Nei prossimi mesi proveremo ad applicare il modello alle diverse esperienze italiane per poi proporre una riflessione ad un convegno di confronto nel corso del prossimo FORUM PA

Una Smart City in Agenda

Tra le iniziative che il prossimo governo metterà con urgenza in agenda, speriamo che un posto importante sia destinato al tema delle smart cities. Come più volte abbiamo evidenziato, sotto questa etichetta si è avviato in Italia un processo di analisi e di intervento volto ad affrontare con nuovi strumenti (culturali, metodologi e tecnologici) i problemi, finora irrisolti, che le nostre città si trovano ad affrontare. Le smart cities sono, infatti, le città che creano le condizioni di governo, infrastrutturali e tecnologiche per produrre innovazione sociale, per risolvere cioè problemi sociali legati alla crescita, all’inclusione e alla qualità della vita attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei diversi attori locali coinvolti: cittadini, imprese, associazioni.

Un quadro che con la nostra mappa concettuale cerchiamo ogni giorno di tenere aggiornato, tenendo conto delle diverse sfumature che caratterizzano il dibattito e le iniziative in corso.

Quello che rileviamo è che se la discussione ha raggiunto un elevato grado di maturità, poco ancora è stato fatto per tradurre l’approccio alle smart cities in un percorso operativo concreto. Inoltre, come qualsiasi approccio innovativo, quello delle smart city rischia di diventare un’ennesima occasione perduta se non potrà avvalersi delle necessarie competenze, interne ed esterne alla pubblica amministrazione, in grado di gestire le innovazioni introdotte.
Per questo motivo negli ultimi ventiquattro mesi FORUM PA ha promosso e realizzato una serie di iniziative, coordinate tra di loro, al fine di supportare, promuovere e facilitare il percorso delle smart cities italiane. Eccole in sintesi.

  •  Accordo strategico. ANCI e FORUM PA hanno deciso di mettere insieme la loro esperienza siglando un Protocollo d’intesa per la gestione dell’Osservatorio Nazionale ANCI sulle Smart Cities che ha l’obiettivo di mappare e mettere in rete le esperienze già avviate dai Comuni italiani, individuare le soluzioni tecnologiche e gli strumenti di programmazione adottati, evidenziare gli ostacoli ancora esistenti, elaborare analisi, ricerche e modelli replicabili, favorire la conoscenza, la collaborazione, la comunicazione. L’Osservatorio, inoltre, mira a realizzare, insieme alle città che hanno aderito, un Vademecum in grado di rendere operativo il percorso verso le Smart Cities. L’iniziativa (peraltro presentata al pubblico tramite un webinar ) non è estemporanea ma discende direttamente dal ruolo istituzionale che viene attribuito all’ANCI dall’articolo 20 del decreto crescita 2.0
  • Strumenti per la trasparenza e la gestione della conoscenza. La materia prima diventa “informazione e conoscenza” e le città si possono qualificare per il modo in cui informazione e conoscenza sono prodotte, raccolte e condivise. Per questo motivo FORUM PA ha dedicato particolare attenzione a quelle tecnologie in grado di abilitare la gestione delle informazioni e della conoscenza a livello urbano. Ne è un esempio ICity Rate, strumento di analisi e di lavoro dedicato alle imprese, ai governi e ai cittadini impegnati nel processo di costruzione delle smart cities. I City Rate si distingue dalle molteplici inziative che stanno nascendo anche nell’ultime ore perché:
    •  esiste già ed è disponibile sul sito di ICity Lab
    • è gratuito. Chiunque può andare sul sito dedicato e accedere ai dati pubblicati e creare nuove elaborazioni. (Per un comune o un’impresa che intendono investire sul territorio sono utilissimi gli strumenti Checkup e Benchmarking)
    • ha una metodologia aperta e condivisa. Il nostro Indice non vuole essere “migliore degli altri” (non stiamo vendendo un fustino di detersivo) ma semplicemente uno strumento condiviso e aperto. Da quando abbiamo pubblicato la prima versione abbiamo ricevuto molteplici suggerimenti sia dal pubblico vasto che sa specialisti che ci hanno fornito utili indicazioni che stiamo già implementando in vista della prossima edizione.
  • Accordo università. FORUM PA ha firmato una convenzione con l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di Scienze e Tecnologia della Formazione a collaborare per la realizzazione di attività di formazione e ricerca nel campo delle metodologie e tecnologie per l’apprendimento e il lavoro collaborativo, in particolare per il settore della pubblica amministrazione e sulla tematica delle “smart cities” e dei servizi e applicazioni avanzate per la pubblica amministrazione.
  • Servizi di comunicazione. Le relazioni pubbliche, la comunicazione istituzionale e la sensibilizzazione sui temi emergenti rimangono il cuore dell’attività di FORUM PA per promuovere e facilitare l’incontro e il confronto tra pubbliche amministrazioni, imprese e cittadini sui temi chiave dell’innovazione. Il tema delle smart cities è entrato a pieno titolo all’interno del Dispositivo Integrato di Comunicazione del FORUM PA che ha come momenti centrali la Manifestazione di maggio e la Smart City Exhibition di ottobre di cui da pochi giorni abbiamo presentato il nuovo sito.

Nell’ambito del prossimo FORUM PA (28 – 30 maggio, Palazzo dei Congressi Roma) il tema delle Smart Cities sarà un vero e proprio percorso tematico.

Noi siamo pronti, speriamo che il nuovo governo arrivi all’appuntamento con una visione già definita di deleghe operative e di obiettivi per ridare slancio al percorso appena intrapreso verso La via italiana alle Smart Cities.

La partecipazione tradita (e alcune riflessioni sulla Cittadinanza Attiva)

Il 2013 è stato intitolato dall’Unione Europea come “Anno europeo dei cittadini” , con il duplice obiettivo di promuovere la conoscenza dei diritti legati alla cittadinanza europea e di stimolare il dialogo tra i diversi livelli di governo, la società civile e il mondo delle imprese per individuare quale sia, da qui al 2020, l’Europa auspicata dai cittadini in termini di diritti, di politiche e di governance.

L’attenzione delle istituzioni europee ai cittadini, per quanto necessariamente simbolica in iniziative di questo tipo, ci è di stimolo per riflettere su come, a livello internazionale, il rapporto tra governi e cittadini stia mutando fortemente fino a portare, in molti paesi, all’inaugurazione di un nuovo modo di intendere il concetto e lo status di “cittadinanza”(1). E questo sta accadendo come risultato dell’interazione tra due approcci distinti ma altamente complementari:

  • il primo approccio è legato al modello dell’open government e dell’open data, per cui nella relazione con i cittadini si adotta una logica di accountability, traducibile nella volontà e nella capacità di render conto dell’attività svolta. Su Wikipedia l’open government viene così definito: ”Con l’espressione open government – letteralmente governo aperto – si intende un nuovo concetto di governance a livello centrale e locale, basato su modelli, strumenti e tecnologie che consentono alle amministrazioni di essere “aperte” e “trasparenti” nei confronti dei cittadini. In particolare l’open government prevede che tutte le attività dei governi e delle amministrazioni dello stato debbano essere aperte e disponibili al fine di favorire azioni efficaci e garantire un controllo pubblico sull’operato”. In questo modello i diritti di cittadinanza vengono arricchiti dalla possibilità, resa concreta nelle pratiche di amministrazione, di seguire e controllare le attività che riguardano e interessano (2) i cittadini stessi;
  • il secondo approccio è legato alle funzionalità stesse della pubblica amministrazione, messe sempre più in discussione dalla drammmatica riduzione delle risorse disponibili. Già nel 2008 scriveva l’OECD: ”Governments alone cannot deal with complex global and domestic challenges, such as climate change or soaring obesity levels. They face hard trade-offs, such as responding to rising demands for better quality public services despite tight budgets. They need to work with their own citizens and other stakeholders to find solutions”(3). Nella sostanza è quello che noi abbiamo scritto molte volte, con altre parole: i governi di tutto il mondo si trovano a dover fare di più spendendo di meno e possono riuscirci solo con l’aiuto dei cittadini.

In quest’ottica l’eGovernment è stata una promessa mancata. Come scrive Francesca Di Donato: “Si tratta di un vero e proprio fallimento strategico: i servizi offerti non rispondono ai bisogni e agli interessi reali degli utenti; gli sforzi per includere chi è a rischio di esclusione sono insufficienti; sussistono barriere tecniche che limitano l’usabilità dei siti”(4). Alla base di questo fallimento c’è stato l’errore di considerare i destinatari dei servizi, i cittadini, come semplici utenti. Un errore che il nuovo approccio non intende ripetere, coinvolgendo perciò i cittadini in tutte le fasi che descrivono il processo di erogazione dei servizi. Per questo finalmente si parla di crowdsourcing e di co-design dei servizi (5).

Quelli brevemente tracciati sono dunque due approcci che, partendo da necessità apparentemente diverse, finiscono per ridefinire, arricchendolo, il rapporto governo-cittadini, introducendo nuove forme di collaborazione e partecipazione: il cittadino ha la possibilità, come mai era successo prima d’ora, di intervenire ed essere parte attiva nella gestione della cosa pubblica.

Se queste sono le tendenze registrabili a livello internazionale, purtroppo in Italia, per ora, siamo prevalentemente fermi allo stadio delle buone intenzioni, salvo alcune esperienze nel campo degli open data e alcune notevoli iniziative nate dal basso come quelle portate avanti dall’associazione Openpolis, in particolare con i progetti Openparlamento e OpenMunicipio.

In questo momento promuovere la cittadinanza attiva, come abbiamo detto, non è solo un’azione virtuosa dell’amministrazione, ma è anche e soprattutto una necessità, laddove l’obiettivo è rendere più efficace l’azione pubblica.
Per questo dovremmo approfittare dell’Anno Europeo dei Cittadini promosso dalle istituzioni dell’Unione, per portare all’attenzione dell’attuale dibattito politico i temi della cittadinanza attiva.

La Giornata della Cittadinanza Attiva a FORUM PA 2013, 30 maggio 2013, Palazzo dei Congressi Roma. Atti on line!


Per quanto ci riguarda partiremo da qui per indagare, come sempre ci piace fare, forme, approcci e pratiche di questo elemento  che è diventato ormai un must dei modelli di amministrazione emergenti e che spesso viene tirato dentro discorsi politici, dichiarazioni di intenti e programmi d’azione senza sufficiente cognizione di causa e con forte rischio di “depotenziamento” della sua portata (per dei versi) rivoluzionaria.

Questo percorso ci porterà  al prossimo FORUM PA, a Roma dal 28 al 30 maggio 2013,  in occasione del quale abbiamo indetto una Giornata dedicata alla Cittadinanza Attiva, con iniziative e momenti di incontro e di confronto dedicati agli operatori ma anche agli stessi cittadini. Una giornata che metta insieme istituzioni e cittadini in una logica di ascolto reciproco, improntata su quei principi di trasparenza, partecipazione e collaborazione a cui si ispirano gran parte dei governi e che dovrebbero essere elementi fondativi della politica del prossimo governo italiano.


1 Vedi anche l’articolo Dominici, G. (2012). Capitolo 2. Il cittadino al centro | Saperi PA. http://saperi.forumpa.it/story/50914/il-cittadino-al-centro
2 Interessante per i movimenti a livello internazionale Sifry, M.L. (2011). Oltre WikiLeaks : il futuro del movimento per la trasparenza (Milano: EGEA).
3 OECD (2008). Focus on citizens: public engement for better policy and services. Vedi anche (2010). Towards Smarter and more Transparent Government E-GOVERNMENT STATUS
4 Di Donato F. (2010). Lo stato trasparente. Linked Open Data e Cittadinanza Attiva (Editori ETS)
5 Sul co-design , interessante il lavoro fatto in Italia e all’estero da Manzini : SIE Interviews Ezio Manzini | Social Innovation Europe.http://www.socialinnovationeurope.eu/magazine/methodsand-tools/interviews/sie-interviews-ezio-manzini
Baek, J.S., and Manzini, E. (2009). Designing collaborative services on the digital platform. In Proceedings of the Seventh ACM Conference on Creativity and Cognition, pp. 325–326 Vedi anche: OECD (2009). Innovation in public service: working together with citizens for better outcomes

ICity rate: a Bologna premiate le città italiane più smart

ICity Lab – dove la I evoca Innovazione, Inclusione, Interazione, Intelligenza – è una iniziativa di FORUM PA che vuole essere di supporto a tutti coloro che operano ai diversi livelli per migliorare le nostre città, ma è anche uno stimolo a impegnarsi sempre di più nei diversi ambiti che caratterizzano una città intelligente. Per questo motivo, oltre a produrre materiali di lavoro e di ricerca, FORUM PA – in occasione dell’apertura della manifestazione Smart City Exhibition il 29 ottobre a Bologna – presenterà i risultati di ICity Rate, la classifica delle città intelligenti italiane. I capoluoghi di provincia italiani sono stati messi a confronto sulla base di oltre cento indicatori riferiti alle dimensioni della governance della città, dell’economia, della mobilità, dell’ambiente, del capitale sociale e della qualità dei servizi che hanno poi permesso di arrivare alla classifica finale.

L’idea di Città Intelligente alla base del rating, quindi, è quella di una città inclusiva e competitiva ben descritta dalla parole del ministro Francesco Profumo: “Al centro della sfida vi è la costruzione di un nuovo genere di bene comune, una grande infrastruttura tecnologica e immateriale che faccia dialogare persone e oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano”.

Il tema della Smart City sarà al centro dei tre giorni di Smart City Exhibition, la manifestazione frutto della partnership tra FORUM PA e Bologna Fiere che darà vita a tre giorni di intenso lavoro presso la Fiera di Bologna il 29/30/31 Ottobre. L’iniziativa si pone come momento centrale nel trend che vede ormai la politica per le città intelligenti come una priorità europea e nazionale.

Le grandi opportunità date dai fondi comunitari e dai bandi nazionali sulle smart city e smart community rendono infatti sempre più necessario, per non essere sprecate, un momento “fondativo” di riflessione e di incontro tra i protagonisti per utilizzare al meglio questa grande occasione di innovazione, costruendo politiche sostenibili, lungimiranti ed effettivamente utili a rispondere ai crescenti e multiformi bisogni che, in questo momento di crisi, esprimono i cittadini.

La manifestazione propone una visione completamente nuova del concetto di città, intesa come insieme di flussi informativi e reti di relazioni e comunicazioni, fisiche e digitali, caratterizzate dalla capacità di creare capitale sociale, benessere per le persone, migliore qualità della vita.

Altrettanto nuova è la sua formula, centrata su momenti partecipativi e qualificati di lavoro collaborativo, sulla presentazione di grandi scenari internazionali, sulla costruzione di nuova cultura condivisa che aiuti a trasformare in Progetto-Paese una serie di iniziative ancora allo stato nascente e non sempre coordinate tra loro.

Gli obiettivi principali di SMART City Exhibition sono, in sintesi:

  • Elaborare in forma collaborativa una definizione condivisa di smart city, ossia mettere in luce i passaggi fondamentali per un approccio strategico e olistico; individuare le politiche settoriali, i nessi tra loro e i percorsi per realizzarle; chiarire il ruolo della tecnologia nei suoi tre livelli: quello della piattaforma di rete, quello degli applicativi verticali (scuola, sanità, welfare, ambiente, energia, mobilità, ecc.), quello delle periferiche, della sensoristica, dei device.
  • Proporre momenti di sensibilizzazione e di formazione per la classe dirigente politica ed amministrativa sul tema delle nuove città.
  • Individuare e divulgare le migliori esperienze italiane e internazionali e identificarne i modelli.
  • Costruire un set di documentazione sui singoli aspetti della smart city che possa costituire una cultura condivisa con il Governo, le città e le imprese e che sia la base su cui costruire le politiche future delle città intelligenti.
  • Confrontarsi sui nuovi modelli di procurement e di partnership pubblico-privata che rendano possibile investimenti lungimiranti per migliorare la qualità del vivere urbano.
  • Offrire ai cittadini e all’opinione pubblica un resoconto puntuale e indipendente sullo stato dell’arte dell’innovazione nelle città, con particolare attenzione alla accountability.

Tra tagli lineari e spending review che fine ha fatto l’innovazione?

In diverse occasioni abbiamo sottolineato l’importanza di avviare una riflessione su una nuova forma operativa che la PA dovrebbe prendere per poter assolvere alle sue funzioni: a più riprese abbiamo parlato di Governo della Rete, di Big Society, di innovazione sociale, di innovazione tecnologica.
Già, l’innovazione nella PA. Se la crisi non attanaglia solo il nostro paese, il nostro è invece tra i pochi a continuare a dare importanza marginale all’innovazione. Guardiamo i dati del Digital Agenda Scoreboard l’analisi che monitora i progressi dei diversi paesi nel raggiungere gli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea. L’Italia è penultima in Europa, dietro ha solo la Romania, nella percentuale di cittadini che usano i servizi di e government: il 20% contro l’80% della Danimarca. Situazione simile la troviamo per quanto riguarda gli indicatori sulla penetrazione della banda larga o dell’e-commerce. Il nostro ritardo non si traduce soltanto in un deficit in termini di trasparenza, di partecipazione e di collaborazione ma anche di efficienza e di risparmio. Ad esempio, grazie alla ricerca di sprechi ora abbiamo una idea più precisa del numero e dei costi della auto blu ma invece non sappiamo nulla dei data center, dei centri di elaborazione dati utilizzati dalle diverse pubbliche amministrazioni a livello nazionale e locale, anche perché l’ultimo censimento risale al 2006. Eppure negli altri paesi è una della priorità rese possibili dalla nuove tecnologie cloud: si può risparmiare rendendo i servizi più efficienti e più economici. Il governo degli Stati Uniti con la sua iniziativa Federal Data center Consolidation conta di risparmiare 5 miliardi di dollari, mentre il governo australiano ha previsto un risparmio di un miliardo di dollari. Analoghi impegni sono stati presi dal governo del Regno Unito che ha esplicitato la propria strategia tramite il documento Government Cloud Strategy.

E’ inevitabile, quindi, la grande attesa che sta montando in questi giorni nei confronti delle politiche sull’innovazione di questo governo con il timore però che le azioni promesse rischino di diventare lettera morta, di fare cioè la stessa fine delle azioni dei governi precedenti a cominciare dal nuovo Codice dell’Amministrazione Digitale la cui applicazione avrebbe dovuto introdurre grandi risparmi nella PA ma le cui norme sono in gran parte disattese. Nelle prossime ore, nei prossimi giorni (speriamo non troppo oltre) capiremo meglio le intenzioni del Governo Monti in campo di innovazione, cioè quando finalmente vedranno la luce il documento di programmazione “La strategia italiana per un’Agenda Digitale” e il Decreto DigItalia che dovrebbe individuarne norme, risorse e modalità di attuazione. Solo allora sapremo se all’innovazione organizzativa e tecnologia sarà destinato un ruolo centrale nel ridisegnare un pubblica amministrazione che sia in grado di accettare la sfida di fare di più spendendo di meno o se verrà relegata a fare la ciliegina su una torta peraltro per niente appetibile.

In questo contesto difficile, noi, come al solito, vogliamo essere propositivi e lo facciamo a modo nostro, lanciando un nuovo supplemento al nostro portale dedicato all’innovazione: www.smartinnovation.it. Come scriviamo nella presentazione, il supplemento nasce con l’obiettivo di fornire un punto di riferimento per tutti i lettori attenti ai fenomeni d’innovazione che interessano il nostro paese. Si focalizza su tre grandi temi:

  • l’open government come modello di governance basato su strumenti e tecnologie che rendono le amministrazioni pubbliche aperte, trasparenti e partecipate dai cittadini;
  • l’innovazione sociale come capacità di sviluppare nuove idee e forme organizzative per affrontare i problemi della nostra società, anche grazie al supporto delle tecnologie;
  • la smart city come territorio che grazie alla diffusione di tecnologie abilitanti, ad una governance illuminata e alla partecipazione attiva dei cittadini riesce a garantire una superiore qualità della vita.

Sono tre prospettive di lavoro chiaramente correlate che rappresentano in questo momento storico importanti riferimenti per le amministrazioni pubbliche, le imprese e i cittadini che desiderano contribuire al cambiamento del paese.

Smart cities e smart communities: l’innovazione che nasce dal basso

Sempre più spesso si sente parlare di Smart Cities e, più recentemente, di smart communities. Un tema che ha registrato un rinnovato interesse anche in seguito al recente bando pubblicato dal MIUR come prima iniziativa volta a finanziare idee progettuali per “Smart cities e communities”[1].

Ma quando una città è smart? Ovviamente il rischio maggiore è attribuire l’intelligenza alle sue dotazioni tecnologiche. Le reti e tutte le infrastrutture immateriali, il cloud computing, l’elettronica distribuita sono solo degli strumenti che devono essere finalizzati ad un obiettivo[2].

Andando quindi oltre la tecnologia sono tre le dimensioni principali di una smart city:

  • quella economica. Legata alla presenza di attività innovative, di ricerca, alla capacità di attirare capitali economici e professionali;
  • quella del capitale umano e sociale. Una città è smart quando sono smart i suoi abitanti in termini di competenze, di capacità relazionale di inclusione e tolleranza;
  • quella della governance. Da intendersi nell’adozione di modelli di governo improntati a dare centralità ai beni relazionali e attenzione ai beni comuni. Nella creazione di opportunità per favorire la partecipazione civica nella creazione di valore pubblico.

Assumendo questa prospettiva, il concetto di smart city si lega indissolubilmente a quello di innovazione sociale[3]. Le Smart cities sono le città che creano le condizioni di governo, infrastrutturali e tecnologiche per produrre innovazione sociale, per risolvere cioè problemi sociali legati alla crescita, all’inclusione e alla qualità della vita attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei diversi attori locali coinvolti: cittadini, imprese, associazioni.

La materia prima diventa l’informazione e la conoscenza e le città si possono qualificare nel modo in cui informazione e conoscenza sono prodotte, raccolte e condivise per produrre innovazione. Sia essa comunicazione finanziaria, economica, sociale o culturale le città sono sempre più nodi attivi dei flussi fisici ma anche, appunto, di quelli immateriali.

Negli ultimi dieci anni, però, è drasticamente cambiato il modo in cui le informazioni vengono elaborate e trasmesse, grazie soprattutto allo sviluppo delle tecnologie di rete. Lo stesso spazio urbano è divenuto un luogo ibrido nel quale esperienza fisica ed esperienza virtuale si combinano insieme creando un sistema socio tecnico esteso basato sulla combinazione di luogo e network. Un’interazione continua tra luoghi fisici e flussi informativi resa ancora più intensa dalla recentissima diffusione delle applicazioni georeferenziate utilizzate dai moderni device (i cosiddetti Location Based Social Network)[4]. La fruizione della città diventa un’esperienza che non finisce a quello che è direttamente osservabile ma che viene arricchita da comunicazioni, annotazioni e segnalazioni che provengono dalle comunità in rete[5].

La stessa rappresentazione grafica della forma urbana si è arricchita di nuove informazioni con l”utilizzo delle cartografia on line che da rappresentazione simbolica dello spazio urbano si è arricchita in un primo momento aggiungendo alla rappresentazione geografica quella dei fenomeni sociali per poi portare diventare strumento di socializzazione delle informazioni territoriali.

Semplificando, a seconda della priorità data alle diverse forme di comunicazione e di partecipazione, si possono isolare i seguenti modelli di smart cities:

La città delle reti o net city[6]. Le città sono centri flessibili in grado di relazionarsi sia alla propria popolazione sia ai flussi internazionali legati ai settori della finanza, dell’economia e della cultura con l’ambizione di fungere da collegamento tra globale e locale, di fare da cerniera di connessione fra la dimensione locale e quella globale. Da questa prospettiva, la città diventa lo strumento per mobilitare e valorizzare le risorse umane e le competenze che ospita ai fini della concorrenza globale. Per far questo deve essere per prima cosa “accogliente” ed essere capace di attrarre il capitale umano della classe creativa in settori innovativi e di ricerca[7].

La città aperta o open city[8]. È la città che dà priorità alla trasparenza del suo operato. La comunicazione delle proprie attività non è mediata ma è diretta: pubblicazione on line di tutti gli atti, trasmissione in diretta streaming delle sedute consiliari, acceso agli atti. E’ con l’adozione del modello degli open data che questo approccio ha trovato la massima espressione prima in alcuni paesi esteri e, recentemente, anche in Italia con le esperienze di Udine, Torino, Firenze.

La città senziente o sentient cities[9]. Finalizzata prioritariamente a migliorare l’efficienza operativa e la sostenibilità dello sviluppo, la città senziente crea le condizioni infrastrutturali per produrre e gestire le informazioni sul suo funzionamento negli ambiti prioritari delle sue funzioni come la mobilità, le risorse energetiche, la qualità dell’ambiente. Esempi di questo approccio, tra i tanti, sono: il progetto Trash Track e Live Singapore del MIT, il progetto del politecnico di Torino. La raccolta delle informazioni non è solo delegata al diffondersi di nuovi strumenti urbani sotto forma di sensori ma nuovi progetti coinvolgono i cittadini i quali da fruitori o beneficiari diventano soggetti attivi nel monitoraggio della città. Un esempio di questo tipo è la sperimentazione portata avanti nella città di San Francisco con la tecnologia Citysense[10], che analizza i flussi dei movimenti urbani monitorando (in formato anonimo) i dati di posizionamento prodotti dai cellulari (ciascun cellulare invia in continuazione in modo automatico informazioni sulla sua posizione). Ancora più ambizioso il “Copenaghen Wheel project” [11] che prevede, tramite uno speciale accessorio di trasformare normali biciclette in veicoli elettrici in grado di raccogliere informazioni sul sistema urbano: inquinamento, traffico, condizioni delle strade che vengono inviate ad un centro di controllo che le elabora e le ridistribuisce in tempo reale[12]

La città partecipata o wiki città. La comunicazione è orientata a favorire il coinvolgimento dei cittadini nella gestione della cosa pubblica. Dai primi esperimenti di e-democracy alle recenti esperienze di contest pubblici e di wiki- government i cittadini sono chiamati a diventare parte attiva nelle decisioni che riguardano la città. Esempi concreti di questo approccio sono le esperienze di Bologna[13] e Cagliari[14].

La città neo-bohème o città creativa. E’ la città che dà spazio alla comunicazione che viene dal basso in formato di produzione artistica, creando così le condizioni per la riqualificazione di aree urbane. I quartieri neo-boheme sono laboratori di ricerca e sviluppo per la produzione dell’economia dell’entertainment, dei media, della pubblicità, dei lavori legati all’estetica[15].

La città resiliente[16]. Il 4 novembre, a seguito dell’emergenza causata dal nubifragio a Genova, twitter è stato utilizzato dai cittadini stessi per dare informazioni di pubblica utilità e, a fronte delle difficoltà di sovraccarico della rete cellulare, per invitare le famiglie ad aprire l’accesso ai router wifi domestici così da mettere la comunicazione su internet a disposizione della popolazione in generale. L’ashtag utilizzato su twitter è stato rilanciato dalle tv, a cominciare da Rainews24, creando così una rete di comunicazione formale-informale a disposizione della cittadinanza. E’ stato un classico esempio di comunità resiliente in grado, cioè, di reagire a una calamità esterna condividendo informazioni. Una città resiliente è quindi una città che aiuta i cittadini a meglio comprendere i rischi del proprio territorio, soprattutto legati ai cambiamenti climatici, tramite la formazione e la sensibilizzazione, e a condividere le informazioni in caso di eventi minacciosi.

La città 2.0. E’ un’amministrazione che si mette dalla parte dei cittadini e che, con gli stessi, stabilisce una relazione di comunicazione bidirezionale perché è consapevole che nessuno meglio di loro può valutare servizi e progetti, segnalare eventuali criticità, manifestare esigenze e bisogni e fare proposte per soddisfarli[17]. Nella sua accezione più ampia i cittadini non vengono coinvolti solo tramite consultazione ma nella progettazione stessa dei servizi, è quello che comunemente viene chiamato il co-design dei servizi[18]. Esempi sono le esperienze di Fixmystreet[19], Are you safe, e, in Italia, di e-part e del comune di Udine[20].

La città come piattaforma o cloud city. Lo spazio urbano, con le sue strade, piazze, parchi è da sempre la precondizione per l’interazione sociale. Nella città come piattaforma la tecnologia diventa un elemento facilitatore dell’interazione, diventa software di connessione tra idee, iniziative, competenze ed esperienze diverse o, come dice Ben Cerveny[21], il sistema operativo della società civile in grado diCombine the reach of the cloud with the power of the crowd”[22]. C’è chi denota questa caratteristica come MAAS, Municipality as a Service[23]prendendo a modello l’approccio portato avanti dalla città di New York che tra le prime città al mondo ha esplicitato il suo modello di sviluppo digitale tramite un piano di sviluppo, la Road Map for Digital City[24], finalizzato a “create an ecosystem that enables both transparency and also economic growth”[25].

Diversi modi, complementari tra di loro, di essere smart ma con un’unica prospettiva comune di considerare la città, il suo governo e le sue tecnologie quale ambiente abilitante del capitale sociale, the enabling city[26], in grado – attraverso azioni positive di inclusione, di innovazione e di interazione – di sostenere una cittadinanza attiva, una smart communities, orientata a risolvere problemi condivisi e creare nuove opportunità sociali, economiche e culturali.

Scarica le slide proiettate alla conferenza stampa di presentazione

Come sempre, quando si tratta di sostenere i processi innovativi in grado di modernizzare le pubbliche amministrazioni e i territori italiani, anche noi di FORUM PA cerchiamo di fare la nostra parte. In questo caso con due iniziative concrete, la prima, in ordine cronologico è “La Giornata PA e Smart Communities” organizzata nell’ambito del prossimo FORUM PA che si terrà a Roma dal 16 al 19 maggio. La seconda, ancora più ambiziosa, è l’organizzazione di un evento, insieme a Bologna Fiere, dal titolo SMART City Exhibition e che si terrà, appunto a Bologna nei prossimi 29-31 ottobre: una grande occasione non solo per parlare di smart city con i principali attori nazionali ed internazionali ma anche per toccare con mano le iniziative concrete portate avanti dalle diverse realtà urbane[27].


[1] Vedi il servizio sul sito di FORUM PA

[2] Tra le altre riflessioni vedi Alfonso Fuggetta, Com’è Smart la Cittàwww.lavoce.info, 13 marzo 2012

[3] Sul tema dell’innovazione sociale vedi il dossier curato da Chiara Buongiovanni: Il vaso di Pandora della Big society e i nuovi modelli di pubblica amministrazione, FORUM PA Saperi

[4] Eric Gordon, Adriana de Souza e Silva, Net Locality: Why Location Matters in a Networked World, Wiley-Blackwell, 2011

[5] Tra i progetti più interessanti di utilizzo della tecnologia per integrare l’esperienza urbana vedi i progetti Yellow Arrow, il Murmur project e, in Italia, le attività di Urban Experience

[6] Guarda ad esempio le considerazioni di Manuell Castells su The Network Society. From Knowledge do Policy. Washington, DC, Johns Hopkins center for Transatlantic relations, 2005 e le considerazioni dello stesso autore sulle Global City in The Rise of Network Society, British Library Cataloguing in Pubblication Data, 1996

.[7] Rimane un punto di riferimento, in merito all’attratività di una città, il lavoro di Florida: Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondatori, Milano, 2003. In Italia l’approccio di Florida è stato applicato da colei che in quegli anni era la sua allieva, Tinagli. Vedi Irene Tinagli, Talento da svendere. Perché in Italia il talento non riesce a prendere il volo, Gli struzzi editore, 2008.

[8] Vedi Chiara Buongiovanni, Lo stato trasparente. Linked open data e cittadinanza attiva, FORUM PA portal, 2012

[9] Vedi Mark(Editor), Shepard Sentient City: Ubiquitous Computing, Architecture, and the Future of Urban Space , MIT Press (MA), 2011. Vedi anche il sito sentiencity.net. Vedi inoltre, Chiara Buongiovanni, So Smart, so Sentient, so Social. E’ la nostra città di domani?, FORUM PA Saperi.

[10] Vedi la pagina del progetto

[11] Vedi il sito del progetto

[12] Un progetto italiano interessante in questo ambito è “Pandora, un organismo vivente a Marghera” finalizzato a creare un edificio intelligente

[13] Diverse sono le iniziative di consultazione pubblica portate avanti dalla municipalità di Bologna, tra le ultime questa

[14] L’iniziativa di Cagliari nasce dal basso come stimolo all’attività del nuovo sindaco Massimo Zedda

[15] Richard Lloyd, Neo-Bohemia: Art and Commerce in the Postindustrial City. New York. 2006.

[16] Interessante da seguire su questo tema le attività di Elena Rapisardi sul suo blog fondatrice, tra le altre cose, del network Open Resilience, intervistata su FORUM PA Saperi da Michela Stentella.
Da segnalare anche Social media for emergency managers can’t start when the emergency does così come il progetto Notify NYC
Interessanti anche le iniziative nate sulla base della piattaforma open source Ushahidi

[17] Tra le iniziative più recenti promosse dalla Pubblica Amministrazione italiana segnaliamo quella della regione Lazio

[18] Su questo tema consulta su FORUM PA Saperi gli atti del webinar Dare voce ai cittadini: dall’ascolto al co-design dei servizi,

[19] Vedi la recente intervista di David Osimo a Tom Steinberg

[20] vai al sito del progetto

[21] Confronta www.themobilecity.nl

[22] Vedi qui

[23] vedi qui

[24] La versione in PDF della Road Map è disponibile qui

[25] Promotrice di questo approccio è Rachel Sterne, chief digital officer della città che in questa intervista descrive le sue ambizioni: New York City Sees Its Future as a Data Platform

[26] Guarda il bel progetto The enabling City e il relativo libro scaricabile gratuitamente. Un’interessante intervista alla promotrice, Chiara Camponeschi, si trova su FORUM PA Saperi

[27] Tra le ultime iniziative a livello territoriale confronta il resoconto SGI: ‘Non c’è smart city senza smart people’. Da Genova l’invito a investire sui giovani, innovare dal basso e fare sistema

APPS4ITALY una speranza per la PA

Ci siamo, il contest Apps4italy è arrivato al traguardo e sabato 19 maggio durante FORUM PA saranno presentati i vincitori.

Lo dico subìto, se lo avessimo organizzato come FORUM PA saremmo stati probabilmente più efficaci e pronti nelle comunicazioni e nel rispetto dei tempi. E, probabilmente, meglio ancora avrebbe fatto ciascuno dei soggetti promotori se avesse lavorato da solo.
Ma il successo di APPS4ITALY è stato proprio questo, di non essere iniziativa di un singolo ma di una collettività, riunitasi in comitato, fatta di soggetti pubblici e privati, associazioni, ed istituzioni, sponsor che, intorno al tema federatore dell’Open Data, hanno lavorato insieme con un’obiettivo comune: valorizzare e premiare le migliori idee, applicazioni, ed utilizzi dei dati rilasciati dalle pubbliche amministrazioni italiane.
Senza esagerare con l’enfasi è però l’esempio di come dovrebbe lavorare la PA per fare di più spendendo di meno, governando la rete di attori pubblici e privati verso obiettivi e progetti comuni. Certo non sono mancati i problemi, certo non tutti hanno sviluppato quel senso del “noi” indispensabile per la riuscita del progetto insistendo fino all’ultimo con infantili protagonismi, così come non sono mancate le critiche e le pochezze di chi si è sentito escluso da questo momento creativo. Ma nonostante tutto si è andati avanti. Un grazie a tutti i componenti del comitato organizzato che hanno profuso competenze ed entusiasmo e un complimenti ai vincitori che il 19 saranno protagonisti per un giorno.

Social media e customer satisfaction management per le amministrazioni pubbliche

Il webinar che si è tenuto a metà dicembre è stata una prima occasione per ragionare, insieme ad interessanti ospiti, sui temi della customer satisfaction in un periodo, come quello attuale, in cui stanno emergendo con sempre più chiarezza, da parte dei cittadini, nuovi bisogni e nuove modalità di partecipazione alla vita pubblica. Bisogni e aspettative che trovano, almeno in parte, accoglienza nel ricorso alle nuove tecnologie, contribuendo a delineare quello che, semplificando, viene definita come cittadinanza 2.0.

D’altronde, anche l’ultimo rapporto dell’ISTAT su “Cittadini e nuove tecnologie” ha messo in evidenza come, benché con ritmi inferiori a molto altri paesi, la penetrazione di internet nelle famiglie italiane continua a crescere: “rispetto al 2010 cresce la quota di famiglie che nell’anno in corso possiede un personal computer (dal 57,6% al 58,8%), l’accesso a internet (dal 52,4% al 54,5%) e un a connessione a banda larga (dal 43,4% al 45,8%)”. Se la dotazione tecnologica cresce cambiano anche i comportamenti, Internet, fino a qualche hanno fa usato quasi esclusivamente per gestire la posta elettronica o per navigare su web si è arricchito, in pochissimo tempo, della dimensione sociale. Sempre sul rapporto ISTAT si legge: “Nel 2011 il 53,8% degli utenti d’Internet consulta un wiki per acquisire informazioni, il 48,1% crea un profilo utente, invia messaggi o altro su Facebook, Twitter. I social network non vengono utilizzati solo come strumento per mantenere i rapporti nella propria rete amicale, ma anche come strumento di informazione e comunicazione su temi sociali o politici (22,8%).”

Di questo cambiamento si sono rese conto, per prime, le aziende che hanno cercato di instaurare un nuovo rapporto con i cittadini aggiungendo nuovi canali di comunicazione interattiva. E’ il caso del ricorso ai contest, di cui parlammo qualche mese fa, grazie ai quali le aziende non solo raccolgono feedback sui servizi e i prodotti offerti, ma anche suggerimenti ed idee per l’implementazione di nuove proposte e, soprattutto, del social CRM definito da wikipedia, appunto, come una disciplina emergente finalizzata a creare un nuovo rapporto collaborativo con gli utenti.

Anche la Pubblica Amministrazione sta muovendo i suoi primi passi e tra esperimenti e progetti pilota il termine social è sempre di più in voga. Sulla presenza delle pubbliche amministrazioni su Twitter sicuramente interessante il report annuale di Giovanni Arata intitolato TwitterPA dal quale si evince, però, che il ricorso a tale strumento è ancora basato prevalentemente sull’improvvisazione. Un’esperienza di successo è stata, invece, l’iniziativa non istituzionale dell’Ideario di Cagliari [di cui ci siamo occupati ampiamente] che viene presentato come “un’iniziativa dal basso, nata per creare partecipazione sulla nostra città dopo l’elezione del nuovo sindaco, Massimo Zedda. L’ideario non appartiene ad un partito, né al Comune di Cagliari, né allo staff di Massimo Zedda. Questi soggetti pertanto non hanno alcuna responsabilità sui contenuti dell’Ideario stesso”. Un’iniziativa informale che però ha dimostrato una propensione tutta nuova dei cittadini a partecipare, in pochi mesi sono arrivate 574 idee, 2.942 commenti, 13.000 voti per 1.152 utenti registrati.

Ma a muoversi non sono solo le associazioni o i singoli cittadini. Lo scorso anno l’allora Ministero della Pubblica Amministrazione e l’innovazione ha lanciato, in collaborazione con il Formez PA e FORUM PA, il progetto MiaPA; un’iniziativa volta ad introdurre e sperimentare linguaggi e strumenti innovativi nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadini. A questo scopo MiaPA fa ricorso alle tecnologie del social check in (la possibilità offerta dagli smartphone di condividere punti di interesse geolocalizzati) per permettere agli utenti di segnalare e valutare un servizio della Pubblica Amministrazione di cui si è usufruito. A livello cittadino, invece, uno dei Comuni più attivi e sicuramente quello di Udine la cui esperienza è sintetizzata dall’assessore Paolo Coppola. Il Comune da diversi anni è oramai impegnato a sperimentare le diverse forme di interazione con i cittadini: twitter, Facebook, contest su uservoice fino ad essere il primo comune italiano ad utilizzare una piattaforma per la segnalazione da parte, degli utenti, di eventuali disservizi sul territorio.

Se le iniziative portate avanti fino ad ora sembrano promettenti le prospettive non devono indurci a intraprendere scorciatoie. L’ascolto dei cittadini tramite i social network, infatti, sconta comunque l’esclusione di coloro che per diversi motivi di natura tecnologica o culturale non usano o usano saltuariamente le tecnologie di rete ma, soprattutto, la non rappresentatività statistica dei risultati. Anche se internet dovesse raggiungere la totalità della popolazione, gli strumenti social di per sé prevedono una partecipazione volontaria che non è rappresentativa degli atteggiamenti del pubblico in generale.

Mettere il cittadino al centro del proprio operato deve quindi significare, per una pubblica amministrazione, adottare un approccio articolato che si avvale di diversi strumenti a disposizione con obiettivi specifici in grado di raggiungere pubblici diversi. Considerando gli strumenti a disposizione si può ipotizzare una strategia basata su tre livelli diversi:

  1. I social network per raggiungere pubblici più giovani e contribuire a creare una cultura della partecipazione tra i cittadini;
  2. La raccolta dei feedback sulla qualità dei servizi erogati che può avvenire tramite internet, tramite strumenti avanzati come MiaPA, tramite il ricorso a strumenti strutturati come Mettiamoci la Faccia “per rilevare in maniera sistematica attraverso l’utilizzo di emoticons, la soddisfazione di cittadini e utenti per i servizi pubblici erogati agli sportelli o attraverso altri canali (web e telefono)”.
  3. L’adozione di strumenti di Customer Satisfaction che permettono il ricorso a metodologie collaudate rigorose ma flessibili in grado di adattarsi alle necessità delle diverse pubbliche amministrazioni. Tra queste ultime non possiamo non citare il progetto MiglioraPA del Dipartimento della Funzione Pubblica pensato per tutte le amministrazioni delle Regioni Convergenza (Puglia, Calabria, Sicilia, Campania).

Una strategia europea per l’open data

Con una nota stampa rilasciata ieri, 12 dicembre, la Commissione Europea ha presentato, tramite la commissaria Neelie Kroes (guarda il video) una comunicazione ufficiale finalizzata a valorizzare gli Open Data tra i paesi europei:

La strategia è basata su quattro azioni principali:

  1. Con la prima la Commissione vuole dare il buon esempio annunciando il rilascio, nella prossima primavera, di un portale europeo, attualmente in fase beta, con i dati prodotti dalla Commissione stessa e dai diversi organismi comunitari.
  2. Un investimento di 100 milioni di euro nel periodo 2011-2013 per sostenere la ricerca per lo sviluppo di tecnologie in grado di gestire e valorizzare i dati aperti.
  3. La creazione di un portale paneuropeo, che sarà operativo nel 2013, che diventerà la porta di accesso ai diversi  dataset messi a disposizione dai diversi paesi membri.
  4. Una proposta di aggiornamento della direttiva del 2003 sul riutilizzo dei dati pubblici.

Cominciamo proprio da quest’ultimo documento diffuso già sotto forma di bozza. Si legge nel documento: “L’importanza economica dell’apertura delle risorse di dati, inclusi i dati pubblici è oggi riconosciuta da tutti. Ad esempio, secondo una relazione pubblicata dall’Economist nel 2010, i dati sono diventati “una materia prima economica quasi alla pari del capitale e della forza lavoro”, mentre il Digital Britain Final Report definisce i dati “una valuta dell’innovazione… la linfa dell’economia della conoscenza”.
Secondo uno studio recente, il mercato complessivo delle informazioni del settore pubblico nel 2008 totalizzava un importo di 28 miliardi di EUR nell’Unione. Lo stesso studio indica che l’utile economico complessivo derivante dall’ulteriore apertura delle informazioni del settore pubblico determinata da un accesso agevole alle stesse ammonta a 40 miliardi di EUR all’anno per i paesi dell’UE-27. Gli utili economici diretti e indiretti totali connessi alle applicazioni e all’uso delle informazioni del settore pubblico per l’intera economia dell’UE-27 sarebbero dell’ordine di 140 miliardi di euro all’anno.

Oltre ad alimentare l’innovazione e la creatività, che servono da stimolo alla crescita economica, l’apertura dei dati delle pubbliche amministrazioni faciliterà anche la partecipazione attiva dei cittadini, rafforzando una democrazia partecipativa e promuovendo la trasparenza, la responsabilità e l’efficienza delle amministrazioni. ”

La Commissione, dunque, ribadisce l’importanza strategica del riutilizzo dei dati pubblici e cerca di porre le condizioni per diffondere, tra le pubbliche amministrazioni europee la cultura e la prassi degli open data cercando anche di intervenire su quella che attualmente viene considerata “la mancanza di consapevolezza degli organismi pubblici per quanto riguarda le potenzialità dei dati aperti” Nello specifico, la proposta di nuova direttiva:

  • introduce il principio che tutte le informazioni in possesso del settore pubblico, che non rientrano esplicitamente tra le eccezioni, sono riutilizzabili per fini commerciali e non commerciali;
  • stabilisce che l’importo addebitabile per l’acquisizione di informazioni del settore pubblico non può essere superiore ai costi marginali di divulgazione e che solo in casi eccezionali rimane possibile addebitare l’intero costo di produzione e divulgazione delle informazioni;
  • amplia il campo di applicazione della direttiva per includervi biblioteche, archivi, musei e biblioteche universitarie, in modo tuttavia da limitare i possibili effetti finanziari e non imporre oneri amministrativi eccesivi a tali istituzioni.

Accanto alle iniziative di adeguamento del quadro normativo, come abbiamo già introdotto, sono previste una serie di azioni volte a sostenere  e valorizzare i processi in corso: costruzioni di portali, sostegno alle imprese che intendono proporre soluzioni per il riutilizzo dei dati, lancio di contest pubblici per premiare soluzioni innovative che utilizzino i dati resi pubblici.

Un’attività complessiva che diventa parte integrante dell’Agenda Digitale e che, secondo quanto affermato nella Comunicazione, può portare a un giro di affari pari a 40 miliardi l’anno.

La centralità che la Commissione dà agli Open Data (Turning government data into gold! è lo slogan della comunicazione) non può che riportarci alle questioni nostrane. Rispetto alla direzione tracciata dalla Commissione, una volta tanto non siamo, come Paese, gli ultimi della classe. Come il Regno Unito e la Francia anche noi abbiamo un portale nazionale e diversi portali regionali per la distribuzione degli open data della pubblica amministrazione, abbiamo una licenza specifica a protezione dei dati liberati, abbiamo un vademecum di indirizzo e di guida per le amministrazioni che vogliono liberare i dati, abbiamo, infine, un contest finalizzato a premiare le migliore soluzioni di riutilizzo dei dati pubblici. Cosa ci manca allora? Ci manca una politica che valorizzi le diverse iniziative all’interno di un quadro coerente e di un progetto condiviso, una visione strategica che indichi priorità tra le diverse iniziative. L’augurio che possiamo farci è che, conclusa questo fase concitata, l’attuale governo abbia la forza e la volontà di riprendere il filo delle cose già in corso.

Web e copyright un connubio difficile anche per Tim Berners-Lee

La notizia è passata un po’ in sordina, con un’insolita disattenzione dei protagonisti della rete poi, sabato, Stefano Epifani, professore universitario alla Sapienza di Roma, l’ha rilanciata con un tweet diretto e provocatorio: “(@stefanoepifani) Ma lo speech di Tim Berners Lee, li valeva 25000 euro per 45 minuti non riproducibili sui media? #hbw11”
A cosa ci riferiamo? Alla partecipazione di Tim Berners-Lee, l’inventore del world wide web,  all’incontro dedicato a lui e alla sua creatura e che si è tenuto a Roma con il titolo Happy Birthday Web.

Ora non entro nel merito del compenso, eludendo così una parte della domanda di Epifani, probabilmente la partecipazione a un evento di Berners-Lee vale tutti i 25.000 euro che ha chiesto agli organizzatori, d’altronde, diversamente, sarebbe stato difficile vederlo a Roma a spegnere le candeline del compleanno che gli avevano organizzato.
La  questione centrale che solleva Epifani con il suo breve ma incisivo tweet è un’altra: Tim Bsrners-Lee ha preteso, con tanto di contratto scritto e blindato, che tutta la sua presenza a Roma, al compleanno della sua creatura, fosse coperta da copyright: vietato fare le foto durante il suo intervento, vietato registrarlo e tantomeno distribuirlo su internet, interviste solo a pagamento. E queste condizioni scorrevano sullo schermo mentre Berners-lee parlava alla platea, come una minaccia davanti ai presenti intimoriti. Poi, proprio grazie alle pressioni che stavano provenendo dalla rete, gli organizzatori (bisogna riconoscere prontamente) hanno convinto il papà del web a desistere almeno in merito alla pubblicazione dell’intervento che ora è effettivamente disponibile sul sito dell’evento, protetto da una semplice, ma efficace, licenza creative commons. La rete, quindi, almeno in questo caso, alla fine ha vinto ancora, ma la minaccia è evidente.

Ma come, il papà del web, colui che ha permesso l’avvento della società della conoscenza, colui che ha posto le condizioni per lo sviluppo di internet come la conosciamo ora, fonte di informazioni e di saperi ma anche di relazioni e di libertà di espressione considera la rete non degna di diffondere un suo intervento, peraltro già retribuito.

Certo la cosa deve far riflettere. Il pensiero per prima cosa va ai milioni di contributori che in tutto il mondo riempiono la rete anche di conoscenze e di saperi. Va a coloro che tramite Slideshare mettono a disposizione le proprie conoscenze, a coloro che hanno fatto di Flickr la più grande collezione di immagini che si possa immaginare, a coloro che da anni contribuiscono ad alimentare wikipedia, a chi si impegna quotidianamente a manutenere la licenza Creative Commons per proteggere le conoscenze liberate sulla rete, penso a quello che è significato per la diffusione dell’innovazione il movimento Open source con i suoi prodotti che usiamo quotidianamente nel nostro agire quotidiano, penso alle iniziative per gli open data, penso alla miriade di piccole aziende che con le loro soluzioni creano valore pubblico dai saperi liberati. Penso, ancora, agli innovatori nella PA caparbiamente impegnati a trasformare le loro conoscenze tacite in sapere da condividere per contagiare di innovazione altre realtà. Penso al nostro sito che raccoglie e diffonde gli interventi di migliaia di relatori che hanno messo a disposizione le registrazioni dei propri interventi e i materiali da loro elaborati e che contribuisce, quotidianamente, a diffondere conoscenze e soluzioni di un PA in cerca di efficienza e modernità.

E poi rifletto su cosa sarebbe oggi internet se tutti facessero come Tim Berners-Lee e considerassero la propria testimonianza, il proprio intervento a un convegno, le proprie riflessioni un prodotto del proprio ingegno la cui pur necessaria ed indispensabile tutela passa però per una censura totale di Internet.

Il tema del copyright è un tema serio che merita molta attenzione, ma che non si dovrebbe affrontare censurando il web. Come ha dichiarato appena poche ore fa il Commissario europeo Neelie Kroes rivolgendosi agli autori, è ora di finirla con l’ossessione (espressione sua) del copyright ed è importante cominciare a ragionare su nuove forme per retribuire la creatività.
Ma, considerando che non stiamo parlando di una persona qualsiasi, ma di colui che il web lo ha inventato, siamo costretti a prendere seriamente in considerazione questo scenario. Uno scenario che porterebbe a svuotare internet dalle conoscenze e dai saperi lasciandola in balia dei produttori del nulla e di rumore per poi avere i saperi veri protetti e blindati magari sotto forma di Apps. Perderemmo, all’improvviso, gran parte dei contenuti che hanno contribuito in pochi anni ad alimentare “la ricchezza della Rete“. Potrebbe così avverarsi davvero la profezia di Chris Anderson e di Michael Wolff che lo scorso Agosto anunciarono  dalle colonne di Wired (quello originale) la morte di internet a favore di più profittevoli soluzioni.

Se così fosse non abbiamo assistito al compleanno del web, ma al suo funerale. Ecco perché la rete ha avuto poco da festeggiare.

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