Archivio | Maggio 2014

A che serve la PA? La Riforma non basta, vogliamo la vera rivoluzione*

The government is us; we are the government, you and I. Theodore Roosvelt

Nel rileggere, a freddo, la lettera a firma Madia e Renzi sulla riforma della PA la sensazione rimane quella della prima ora, di trovarsi davanti a un documento, a una serie di azioni che se portate avanti saranno in grado di cambiare in profondità la nostra pubblica amministrazione rendendola più efficace, più snella e più trasparente.

Ma con la rilettura dei 44 punti cresce anche la sensazione che manchi qualcosa e che le azioni proposte potrebbero non essere sufficienti. La PA che ne uscirebbe, infatti, è una PA rinnovata ma anche incredibilmente uguale a se stessa, soggetto diverso e lontano dalle dinamiche sociali e culturali in atto in questo paese. La riforma elude una domanda: la PA che abbiamo è quella che ci serve?  E allora ci si rende conto che manca un progetto più ampio, una regia complessiva in grado di definire quello che dovrebbe essere il ruolo e la forma di una pubblica amministrazione in un paese profondamente mutato. Alla riforma manca la domanda ontologica, in questo momento essenziale e non retorica: a cosa serve la PA?

Esiste oggi un ambito di bisogni che travalica il campo classico dei servizi offerti dalla PA e che obbliga l’amministrazione a ripensare il proprio ruolo e a ri-progettare le politiche pubbliche. Lo schema classico che vede pubblico e privato contrapporsi bipolarmente è oramai e da tempo superato: esiste una realtà in cui collaborano (e non competono) soggetti diversi: cittadini (organizzati e non), imprese, istituzioni.

Si passa dal paradigma di uno Stato che esiste in quanto soggetto, a quello di uno Stato che abilita i cittadini e i diversi attori sociali ponendo le migliori condizioni perché questi siano in grado di agire. 

Sono diversi i modelli sociali e culturali che in questi anni si sono affermati proponendo una nuova visione della società e che devono essere fonte di ispirazione per la rivoluzione culturale e organizzativa all’interno della PA. I principali sono:

1- Sharing economy: Una economia collaborativa o di condivisione, nata come fenomeno di nicchia per svilupparsi rapidamente e diffondersi in moltissimi settori, complici la crisi economica e una crescente sensibilità nei confronti dei temi ambientali e della sostenibilità.

2- Open Government: Un’amministrazione del bene pubblico trasparente e accessibile che risponda agli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Lo scopo è utilizzare i nuovi strumenti e tecnologie della comunicazione per aumentare il grado di apertura e accessibilità dell’operato delle amministrazioni nei confronti dei cittadini, tanto in termini informativi quanto di partecipazione al processo decisionale.

3- Amministrazione condivisa: Modello secondo il quale gli “amministrati” diventano cittadini attivi e responsabili che “alleandosi” con l’amministrazione contribuiscono alla risoluzione di problemi di interesse generale.

4- La società dell’empatia: Teoria secondo la quale lo sviluppo della società è strettamente legato in relazione allo sviluppo della capacità di empatia tra individui. È proprio l’empatia a dare un vantaggio evolutivo all’uomo. Un ingrediente fondamentale, dunque, per la società, una sorta di collante sociale. La responsabilità nei confronti dello sviluppo della società è condivisa e si basa sulla capacità di immedesimarsi nella condizione di un altro soggetto.

5- Social Business: Il social business rappresenta una formula imprenditoriale innovativa, perché è orientata alla soluzione di problemi sociali e/o della comunità di riferimento e perché coinvolge, con modalità di partecipazione e democraticità, gli stakeholder interni ed esterni.

Tutti i modelli emergenti si poggiano su principi comuni:

1. visione sistemica e partecipativa;

2. importanza del capitale sociale;

3. centralità ai beni relazionali;

4. priorità ai valori sociali;

5. attenzione per i beni comuni;

6. ritrovata centralità della dimensione della “comunità” e dei territori;

7. trasparenza e accountability;

8. cultura dell’openness;

9. nuova attenzione alla collaborazione pubblico-privato;

10. evoluzione dal cittadino “portatore di bisogni” al cittadino competente.

I diversi modelli, emersi grazie al confronto tra i soggetti che in Italia si occupano di analisi e studio del rapporto tra Stato e società e dei confini della “funzione di pubblica utilità”, hanno elementi comuni che portano ad una definizione nuova del ruolo che si configura per l’amministrazione pubblica.

La direzione che, con moto autonomo ovvero senza una regia alta, stanno già seguendo i territori, suggerisce una nuovo concetto di stato rispondente a nuove funzioni: lo stato diventa partner o partner state[1], un soggetto che abilita e supporta le iniziative e la collaborazione tra i diversi attori sociali. Un soggetto che collabora e non ostacola.

Un cambiamento di prospettiva che considera i cittadini non solo come destinatari dell’intervento pubblico (a seconda dei casi utenti, pazienti, assistiti, clienti) ma anche come portatori di capacità e di competenze. Un cambiamento che sancisce l’abbandono del “paradigma bipolare” a favore del paradigma sussidiario in cui la partecipazione civica viene considerata indispensabile nella creazione di valore pubblico.

La lettera di Renzi e della Madia si rivolge direttamente ai dipendenti pubblici, mettendoli al centro del processo della riforma. Forse quello che manca è proprio questo, la consapevolezza che le amministrazioni non hanno il monopolio del bene pubblico e il vero cambiamento si afferma solo coinvolgendo anche i cittadini e agli altri attori sociali a cui dovremmo rivolgerci con lo stesso accorato appello.